Direzioni impreviste

Direzioni impreviste

 
 
 
 
di Alfonso Lentini
 
 
 
 
Quando andava via la luce, da noi era una gran festa. Tutto si fermava e nel buio cominciavano a palpitare candele e altre forme filanti. Tutto ritornava nuovo e la giornata prendeva direzioni impreviste. Nel buio al tatto scoprivamo configurazioni sorprendenti, curvature nascoste. Entravano in scena profumi di inesistenti corpi femminili e gli spicchi delle arance, addentati nel buio, cambiavano sapore. Ogni tanto le ali delle mosche, fatte incorporee, soffiavano sulla nostra pelle un vento tenue. Chi stava per uscire restava a casa. Chi stava per addormentarsi rimaneva sveglio. Chi stava per piangere lasciava il pianto in sospeso.Direzioni impreviste

Era il 4 ottobre del 1957 e lo Sputnik pigolando compiva la sua prima orbita intorno al pianeta. Il bambino stava giocando a fare bolle di sapone. Ne aveva gonfiata una, grossa come un melone, quando andò via la luce. La bolla però non scoppiò.  Il bambino smise di gonfiarla; la sentiva penzolare attaccata alla cannuccia come una pesante mammella ma non scoppiava. Nel buio vedeva entrare dalla finestra l’Orsa Maggiore con l’Orsa Minore per mano e i due animali stellari strusciavano i loro musi puntuti sulle sue gambe. Il bambino non poteva sapere che lo aspettava una lunghissima vita di salute e godimenti, era convinto che sarebbe morto presto, come qualche anno prima quel suo cuginetto che non aveva potuto conoscere e che portava il suo stesso nome. Ma il buio faceva a pezzi anche quei pensieri. E apriva la strada a pensieri nuovi. Per esempio l’arrivo imminente delle giostre e delle bancarelle. Per esempio l’esistenza dei dischi volanti, così veloci nell’attraversare il cielo. Per esempio il mantello dorato di Gesù Bambino. Intanto la bolla penzolava dalla cannuccia e non voleva scoppiare.

Quando andava via la luce, i libri disposti in fila negli scaffali cessavano di risplendere, continuavano a trasmettere il loro consueto brusio e grazie a questo in certi momenti sembrava che il buio si riempisse di favole volanti. Di Orsi in Sicilia. Il bambino non poteva sapere che nel suo futuro era scritta la parola neve. Lui, il bambino, la neve non l’aveva mai vista se non quella di cotone nei presepi insieme ai mandarini trasformati in piccole lanterne; ma nel suo futuro era scritto che di neve ne avrebbe spalata tanta davanti al garage di casa e che le sue figlie avrebbero costruito buffi pupazzi di neve e gridando di gioia si sarebbero lanciate in discesa sugli slittini. Nel suo futuro era scritto che avrebbe sofferto di una sofferenza strana, l’ansiosa attesa della sofferenza senza che questa si palesasse mai del tutto, perché in fondo la sua vita futura sarebbe stata lunga e piena di gioie. Ma il bambino non poteva saperlo e intanto intorno a lui le due Orse, dondolandosi nel buio con i loro testoni si trasformavano in riccioli di fumo e svanivano come le nuvole dell’alba. Nel buio tutto prendeva direzioni diverse, tutto cambiava in continuazione. Sembrava di essere al cinema, nel momento in cui si spengono le luci e lo schermo sta per accendersi delle meraviglie di Stanlio e Ollio. Da noi non si accendevano schermi, ma quando andava via la luce c’era la stessa attesa che precedeva l’inizio di un film.

Chi stava per uscire restava a casa. Chi stava per addormentarsi rimaneva sveglio. Tutto cambiava. Al posto delle due Orse sopraggiungevano, invisibili, tanti cagnolini guaiolanti che sembrava fossero emersi dal sottosuolo, da qualche faglia del pavimento. Poi i cagnolini guaiolanti si trasformavano in esercito di topini anch’essi invisibili che squittivano e formicolavano tra i nostri piedi.

Lo Sputnik, con la sua stella rossa in fronte, continuava paziente il suo giro intorno al Pianeta e il suo remoto pigolio riecheggiava persino nel piccolo buio di casa nostra. Compiva il suo giro in novanta minuti e poi ricominciava uguale. Invece lo squittio dei topini si frammentava in altri suoni: rombi di camion, tintinnio di cucchiaini che rimescolano il caffè nelle tazzine, sirene di ambulanza, bip bip di Sputnik. Dal piano di sopra si sentivano i passi di una ragazza che cullava un neonato.

Quando andava via la luce qualcuno raccontava storie, altri ridevano, altri non ne volevano sapere e pensavano alla morte. Da qualche altra parte in lontananza arrivava la musica rauca di una fisarmonica. Il bambino non poteva sapere che in futuro avrebbe fotografato sua figlia sul Millennium Bridge a Londra e poi sarebbe entrato con lei nella cattedrale di Saint Paul, avrebbero bevuto una cioccolata calda in una pasticceria e sarebbero tornati a casa della ragazza, a Bow River Village, per preparare la cena. Il bambino non poteva saperlo e per lui, piccolo siciliano, Londra era solo un punto lontano e indefinito che si confondeva col suono della fisarmonica. Ma quando andava via la luce il futuro diventava un tunnel dentro cui era piacevole tuffarsi, non fosse altro per vedere se all’uscita la luce fosse o non fosse tornata. Qualcuno intanto intingeva biscotti nel vino, altri alzavano gli occhi per cercare di intravedere attraverso il palpito delle candele i fiorami dipinti sul soffitto. Qualcuno pensava alla morte.

Quando va via la luce può fare freddo e ognuno si butta una coperta sulle spalle, si scalda come può. Al bambino avevano parlato dei dischi volanti e lui ci pensava spesso a quei dischi misteriosi e sperava di riuscire a vederne uno, prima o poi. Non c’era da averne paura perché erano pilotati sicuramente da esseri vivi e non potevano essere fantasmi. Venivano da altri pianeti e non conoscevano la morte, perciò sperava di riuscire a scovarli, prima o poi. Non poteva sapere che in futuro sua figlia, a Londra, mentre facevano colazione con uova e bacon, un giorno gli avrebbe confessato che lei, da bambina, era convinta che lui, proprio lui, e anche sua moglie, fossero venuti da chissà quale pianeta a bordo di un disco volante. A Londra avrebbe fotografato i graffiti di Hackney Wick e a Canary Wharf avrebbe ritrovato la sua sagoma di omino siciliano riflessa nelle pareti a specchio dei grattacieli.

Quando andava via la luce non era più possibile fare i compiti. La macchia di inchiostro volava via dal foglio a quadretti, si gonfiava e invadeva l’aria. Libri e quaderni scomparivano. Scomparivano i cervelli. Non restava che ripassare le tabelline, mentre i numeri saltellavano tristi nell’oscurità. Non restava che pensare alla morte. O tamburellare verso qualche futuro.

Non poteva sapere, il bambino, che un giorno dopo un lungo girovagare sarebbe tornato dal futuro, forse solo per un momento, proprio là dove ora è andata via la luce e con una fitta al cuore avrebbe riconosciuto voci diventate aliene, le scrostature delle pareti, i fiorami dipinti sul soffitto e il tanfo della polvere divenuta antica. Riconoscendo quel luogo dove ora era andata via la luce si sarebbe sentito straniero, un intruso. Il tanfo antichissimo si sarebbe trasformato in una fitta, un dolore non nuovo e non vecchio. Tutto questo il bambino non poteva saperlo, pensava alla morte e aspettando, stupito, continuava a scrutare il buio. Nel buio chi stava per uscire restava a casa. Chi stava per addormentarsi rimaneva sveglio.

Chi stava per piangere lasciava il pianto in sospeso.
 
 
 
 

Alfonso Lentini è nato a Favara (AG) nel 1951. Laureato in filosofia, si è formato nel clima delle neoavanguardie del secondo Novecento frequentando, giovanissimo, l’area di autori che a Palermo facevano capo a Gaetano Testa e alle riviste “Fasis” e “Per Approssimazione”. Trasferitosi a Belluno verso la fine degli anni Settanta, ha sviluppato un suo percorso sia nel campo artistico che in quello della scrittura. I suoi libri più recenti sono: “Noi siamo i lupopesci” (pièdimosca, 2023), “Le professoresse meccaniche e altre storie di scuola” (Graphofeel 2019), “Tre lune in attesa” (Formebrevi 2018). Ha collaborato e collabora con molte riviste di ricerca, fra cui “Anterem”, “Ballyhoo – Quotidiano dei poeti”, “Carteggi letterari”, “Colophon”, “Il Grandevetro”, “L’immaginazione”, “Terra del fuoco”, “Testuale”, “L’indice”, “Zeta”; e, in rete, “Bac Bac”, “Il cucchiaio nell’orecchio”, “La morte per acqua”, “La recherche”, “Le reti di Dedalus”, “Mirkal”, “multiperso”, “Niederngasse”, “Undupalermo”, “Mr Dedalus”, “Utsanga”. Nelle sue mostre e installazioni propone “poesie oggettuali”, scritture verbo-visive, libri oggetto e in generale opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale.

 
 

Illustrazione originale di Carlotta Mazzi.

 
 

Carlotta Mazzi (03/04/1992)
Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ho conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltivo da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale sono occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. Alcune mie tavole sono apparse su Squadernauti, qui, qui, quiqui e qui.