I poveri sono matti

 
 
 

I poveri sono matti (Bompiani, 1937) è un bellissimo romanzo di Cesare Zavattini, che si muove nella sproporzione tra l’irraggiungibilità delle cose e la struggente debolezza delle immagini che si ha della vita.

I poveri sono matti_cover1983Tra i personaggi, poveri e signori con nomi che sembrano incompleti – Suc, Gec, Dod, Buk, ecc. –, di puro suono (eccezion fatta per la moglie del protagonista, che si chiama Maria, e per un amico ricordato, Antonio), e immersi tutti in un sogno di miserie quotidiane e vastità imprendibili, spicca Bat, il protagonista stretto tra mondo e universo:

“Il signor Dod non sa che Bat può pensare a tante cose, è incredibile che Dod dica di no. Bat pensa, mettiamo, che le stelle sono abitate. Si rifiutano mille lire a un uomo che è qui a guardare l’alba? Bat starà fermo, sulla sedia, tre giorni e tre notti, sino al momento della scadenza: che nessuno lo tocchi, gli parli. Al momento della scadenza non capiterà niente, tutto passerà, ma non deve muoversi, respirare appena… Non può succedere niente di grave: all’orizzonte la luce sta giungendo da un pianeta grande un milione di volte il sole”, p. 23 (tutte le citazioni sono tratte dall’edizione del 1983).

In questo romanzo, il grande e il piccolo, la realtà e il sogno fluiscono infatti l’uno nell’altro con grande naturalezza:

“Gli uomini erano raccolti in un’immensa piazza per un accordo e guardavano Buk che stava salendo i primi gradini di una scala altissima. Buk diede un segnale e allora ciascuno si mise a parlare, ad agire, secondo il solito. «Io vedo,» gridò Buk con l’altoparlante, «io vedo Patt che sorride, il figlio di Storm che ruba il pane alla madre.» Salì ancora trenta gradini. «Io vedo Nan, vedo i Bayr che litigano con i Trex…» In basso urlavano, volevano essere visti, ma Buk gridava che non era possibile, che adesso vedeva soltanto la città. Allora tutti adirati cercavano distinguersi, uno si dimenava, uno si cavò nudo, uno con spilli pungeva una fanciulla. «Io pungo una fanciulla.» Buk continuava: «… monti, fiumi.» Entrò nelle nuvole che incombevano sulla piazza e poco dopo gli apparve il sole. Ritornò in terra, e tornando vide prima gli eserciti, poi i capi, gli alamari, le stoffe, la polvere sulle stoffe: prese un granellino di polvere e si chiuse in casa a guardarlo”, pp. 14-15.

La storia, ricca di deviazioni e digressioni, ruota attorno a Bat, che scrive sui giornali, desidera il denaro che non basta mai e un futuro di successo e di forza per suo figlio e che è pronto a fare qualsiasi cosa per ottenerli (“Non aver paura, io ruberò, taglierò il naso al signor Dod, tu vestirai il frac anche di giorno. […] Sono disposto a tutto e tu graffia la faccia del figlio di Evans, rompi gli stinchi al figlio di Matter”, p. 64); Bat che inventa “giuochi senza spese” per gli amici in visita (p. 43), mentre aspetta che gli passi il mal di denti:

“Quando siete in una cerimonia, approfittate del momento in cui il silenzio è profondo per dire forte una brutta parola. Subito dopo riprendete il vostro atteggiamento normale e osservate le persone”, p. 44.

Il mondo delle cose è fatto, per l’appunto, di interruzioni e termini, mentre i sogni confondono tutto, legano una cosa a un’altra senza un chiaro motivo. Insostenibile accettare la propria fine, la sorte di un corpo particolare uguale a quella di tutti gli altri corpi conosciuti o sconosciuti, anonimi:

“Bat pensa […] che non è penoso morire se con sé sparisce ogni altra persona, ogni cosa, anche quel palo rosso visto ieri dall’autobus”, p. 59. “[…] quando morirà lui vorrebbe che non morisse una sola persona in tutto il mondo, allora non sarebbe orribile: invece il suo carro si incrocerà con un altro, come avvenne per Suc”, p. 65.

Ma l’unicità e l’originalità sono impossibili anche nella vita, come se ogni corpo fosse vincolato a un altro venuto prima:

“Eppure che spavento quando dice a Maria nel prenderla: «accarezzami,» e sente che la voce ha il tono di quella di suo padre. Ha paura come a vedersi strisciare sulla terra. Egli fa certe cose perché crede di essere il solo al mondo: le chiamano con delicate parole, Bat e Maria. Ecco, anche ora la mano è posata sul tavolo come la sua”, p. 69.

Quel corpo che può insieme gesti violenti, calcolati e misericordiosi, naturali:

“Poi la mano sarebbe scesa fulminea sulla guancia del signor Dod. Le mani erano calde nella tasca del soprabito, le dita si toccavano […]. Ora aspettava in una piazza il suo principale per percuoterlo; gli aveva negato un prestito. […] Le sue mani un giorno raccolsero l’acqua per dissetarlo: si sentiva un puledro che nitriva tra le alte erbe, e disse a un albero: «Buon giorno.»”, p. 9.

E dei corpi, di ciò che si è, forse rimangono solo i nomi da invocare:

“Bat Bat Bat, pensava, un nome. Provò a dire tante volte Bat. Era soltanto un suono, niente. […] Dopo pranzo raccolse la famiglia e obbligò ciascuno a ripetere cento volte il proprio nome al posto della preghiera. Poi tutti andarono a letto, ed egli, fatti i conti, si affacciò alla finestra”, p. 10.

 
 
 

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