Autore: Giovanna Piazza

15 dicembre 2021

 
 
 

Cari lettori,

la redazione di Squadernauti si modifica e amplia.

Dopo più di sette anni, Giovanna Piazza lascia la co-gestione del blog. Da oggi, ad affiancare Claudio Bagnasco ci saranno Agostino Bimbo, Giovanni Locatelli, Giulio Neri, Carlo Sperduti, Chiara Stefanacci, Gianni Usai e Lara Zambonelli.

Non muterà l’atteggiamento frontale nei confronti della parola, che – almeno nelle intenzioni – caratterizza questo spazio letterario.

L’ampliamento della redazione porterà ulteriori energie e idee, oltre a pubblicazioni più frequenti. E chissà quali novità che solo seguendoci potrete scoprire assieme a noi.

Un benvenuto, dunque, ai nuovi redattori.
E ai lettori vecchi e nuovi: bentrovati.

Claudio Bagnasco e Giovanna Piazza
 

 

Cari voi,

dopo sette anni di intenso scambio umano e letterario quasi quotidiano e intesa di rara bellezza con Claudio nell’ascolto della parola, sento che il tempo dell’avventura squadernautica è per me terminato.

Ringrazio tutti i lettori, i non pochi editori che hanno dato fiducia al nostro sguardo, i tanti autori che ci hanno contattato, affidando le proprie opere alla nostra attenzione, e gli scrittori e le persone incontrati – veramente incontrati – attraverso Squadernauti.

Alla nuova redazione auguro di cuore l’entusiasmo della lettura del mondo degli altri e la gioia di condividere questa esperienza come coro di anime in ascolto.

A Claudio, non senza commozione, giunga tutta la mia gratitudine, muta e viva come un paesaggio, e l’affetto profondo per questo cammino condiviso come due fedeli compagni di parola.

Un abbraccio,

Giovanna

 
 

Adolesco

 
 
 

Pubblicato nel 2021 da Il ramo e la foglia edizioni, Adolesco di Timothy Megaride è un romanzo di formazione, che – con un ritmo ipnotico e incessante – mostra l’assenza di figure adulte tra gli esseri umani del mondo contemporaneo: non tanto e non solo, parrebbe, secondo una prospettiva socio-psicologica, ma da un punto di vista metafisico e ontologico.

È una dimensione, quella raccontata, in cui tutti sono figli, in cui l’apprendimento delle leggi della vita (a partire dal corpo, dalla sessualità, fino alle emozioni, ai sentimenti e ai pensieri) è delegato a qualche forma di compensazione, un riempimento di un’assenza non accolta, non attraversata.

Uno spazio in cui tutti sono impegnati a crescere (adolescere).

Un mondo in cui pare che la solitudine sia proprietà e rifugio, ricercata e inevitabile: una dimensione sostanzialmente separativa, alla quale nessuno può rinunciare.

Quella solitudine che il giovanissimo personaggio principale cerca maldestramente di frantumare, vivendo senza guida né direzione, dentro il contesto distratto e perbene della sua famiglia di avvocati in carriera.

Il protagonista del romanzo è Tommaso Rinaldi, un ragazzo di sedici anni che si racconta in una lunga registrazione: una vera e propria confessione, tenera e oscena, cerebrale e sentimentale, angosciata e presuntuosa, che si dipana lentamente a spirale tra cronaca privata e riflessione, digressioni e anticipazioni, intorno alla verità, alla fame e alla sete di verità.

“Ecco perché sto registrando ogni cosa su questo registratore che mi comprò mio padre quando ero alle medie perché dovevamo fare delle interviste e compagnia cantando al sindaco e andammo anche in Comune e c’era tutta questa gente in una grande sala dove fanno le riunioni che dicevano come sono bravi questi ragazzi, però noi le domande le avevamo tutte scritte e così non c’erano problemi. […] Non posso scrivere, che forse verrebbe una cosa più ordinata e pulita perché questi vanno a guardare dappertutto e dove cazzo le nascondo le carte? E poi il tablet è di mio padre così non posso scriverci sopra e compagnia cantando. Il registratore non se lo ricordano e non lo sanno che sto dicendo la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, tipo dica lo giuro”, p. 47.

Un punto di vista interno quasi fino all’ossessione, il suo, che mostra entusiasmi e contraddizioni, convinzioni e crepe.

Tommaso impara ciò che sa dai social network, dai film, dalle serie tv, dagli influencer. Dalle rigidità e dalle incoerenze del mondo degli adulti, sempre troppo esterno rispetto alla vita di cui lui si fa portatore.

Tuttavia il protagonista si getta anche con coraggio e cecità nel mondo delle relazioni, solo e analfabeta di sentimenti e ignorante di sé, delle possibilità e dei limiti del proprio corpo e della propria età. Impara dal dolore.

Saranno proprio i rapporti dal vivo, fatti di incontri e scambi, anche fisici, a permettergli di crescere e cambiare.

Una relazione si staglia sulle altre, quella con Giona Sarnelli, lo psicologo a cui lo affidano prima i genitori e poi il tribunale: un adulto.

Non si dirà oltre sulla trama, che è svelata a poco a poco, con uno stile capace di lasciar esprimere una silente e continua tensione, dentro la compattezza complessiva del romanzo.

Rispondendo alle domande di una intervista di Nicola Napoletano apparsa su BL Magazine, Timothy Megaride, pseudonimo dietro cui si cela un autore più volte edito, afferma: “[…] il carattere per lo più virtuale dei nostri legami produce narrazioni, non esperienza”.

Da un lato, dal romanzo emerge quanto sia importante la parola per esprimere, comunicare e incontrarsi al di là di una dimensione animale (la relazione tra Tommaso e Giona evidenzia il carattere luminoso del linguaggio, attraverso cui è possibile la scoperta e la conoscenza di sé e dell’altro, dentro la libertà da qualsiasi intento umano predatorio; la stessa confessione verbale di Tommaso, ad esempio, è un atto e un processo di elaborazione e consapevolezza; e, ancora, la riflessione del protagonista sulle parole rende visibile il valore vitale della riflessione linguistica); dall’altro, sembra innegabile che il mondo narrato – il nostro – sia, appunto, narrato, cioè prigioniero di un eccesso di intelligenza, di discorsi, di rappresentazioni, di significati, di costruzioni e di difese che impediscono di sentire – e non in senso univocamente sentimentale – l’accadere della presenza, cioè di fare esperienza.

Verrebbe da dire, quasi con un’esagerazione, che attraverso i personaggi del suo romanzo Megaride ci mostra quanto nella vita umana vibri un sovrappiù di intelligenza persino nella stupidità – intesa fuori dalla dimensione del giudizio quale totale disarmo davanti alla vita – e nell’ignoranza del protagonista.

Un’intelligenza che ha esistenza propria e rimane confinata in spazi predefiniti dentro di noi: resta separata dai nostri corpi e finisce per non poter essere condivisa né trasmessa ai figli. Un’intelligenza che lascia noi stessi figli, come un talento incapace di servire la vita che ci attraversa, e che ci fa sperimentare la nostra verità dolorosamente antropocentrica.

“Quando tornai a casa andai a guardare sul vocabolario il significato di supino. Vabbè, in italiano, è un aggettivo con molti significati, e vuol dire anche sottomesso. Allora pensai che la parola latina adultum era un supino e significava sottomesso e l’esempio del vocabolario diceva qualcuno che mostra accondiscendenza cieca e servile. Allora decisi che io non volevo essere adultum, cioè adulto, cioè supino, che non volevo mostrare a nessuno accondiscendenza servile, cazzo. Io ero io e volevo restare io e non prendevo gli ordini dagli altri e poi mi incazzai perché è pazzesco che essere adulti significa essere ubbidienti e basta. Mai e poi mai, io volevo restare adolescens per sempre. Punto”, pp. 44-45.

 

Contro l’insonnia

 
 
 
di Giovanni Locatelli
 
 
 

Smetti di preoccuparti. Appoggia la testa al cuscino, chiudi gli occhi, allunga le gambe, rilassa i muscoli. Il tuo mondo sta andando a rotoli, ma non è colpa tua, hai fatto errori su errori, la tua vita fa schifo, tuo marito è freddo, tua moglie distratta, i figli crescono storti, scalpitano, scappano, i figli non ci sono, non sono arrivati o non li hai voluti, non c’è marito né moglie e ti senti sola, solo, non c’è lavoro oppure ce n’è troppo, non ci stai più dietro, sei stanco morto, una moglie, un’amante, il tetto da rifare, un buco nei calzini, sei esaurita, un marito, un amante, la cura dei genitori anziani oppure il pensiero di quando lo diventeranno, di quando dovrai farti carico di tuo fratello, di tua sorella, ti senti in trappola e ti mancano le forze, hai saltato la colazione e il pranzo, non te li puoi permettere, sei povero ed è colpa tua, hai perso soldi al gioco, te li sei bevuti o hai fatto spese inutili… ma magari!, almeno ti saresti divertita, invece soldi ne hai tanti, troppi, ma c’è un vuoto in te che i soldi non possono colmare nemmeno quando li dai in beneficenza… in verità, alle feste, se ti senti osservato, dici di voler donare tutto, ma non l’hai mai fatto, il fatto è che avevi delle ambizioni e hai fallito, non avevi ambizioni e ti senti già vecchio, vecchia e anche un filo depressa, vorresti cambiare vita, ricominciare daccapo oppure l’hai cambiata e vorresti tornare indietro, stavi meglio prima ammettilo, insomma il tuo mondo va a rotoli, hai l’impressione di non riuscire a tenere insieme i pezzi, però pensa, fai parte di una rete, di una maglia, sei un semplice nodo e da te partono semplici fili che raggiungono altri nodi, niente di più, più di tanto non puoi muoverti, nel bene e nel male ti sposti insieme al resto del tessuto, certo qualche filo può spezzarsi, ma non sarai mai libero di scappare e viceversa qualche filo può essere reciso, ma tu resti connessa a chi hai amato, magari solo per vie traverse, magari grazie a una bava di cotone e un bottone che ti sono rimasti in tasca l’ultima volta che hai salutato tuo padre, perché lui entrava in ospedale e non l’avresti più rivisto, perché alle tue spalle si chiudevano le porte del carcere e ci stai ancora dentro e te lo meriti, sei una ladra, un truffatore, sei al fresco per spaccio, ma c’è di peggio: spesso hai pensieri strani, oppure ti muovi senza pensare, fai cose a caso, dai retta a gente senza scrupoli o decidi sempre di testa tua e poi nessuno è disposto ad aiutarti, a perdonarti e quando credi di aver finalmente imboccato la strada giusta, aver rimesso i debiti, aver saldato i conti, ecco che ti capita un colpo di sfortuna, una storta alla caviglia non può essere colpa tua, eppure sei di nuovo a terra, ora tutto ti sembra senza senso, inutile, vano e alzarsi non è facile, non è mai stato facile, con gli anni poi anche le forze ti stanno abbandonando, non ti resta che guardare la televisione sul divano, ti senti un pensionato e magari invece sei molto giovane ed è la prima volta che cadi e ti immagini che questa cosa sia successa solo a te, sei il primo al mondo a provare un dolore simile, nessuno può capirti e quando per strada incontri uno sguardo amico o il sorriso di uno sconosciuto sotto sotto c’è la fregatura, l’offerta libera per i tossici, un nuovo contratto telefonico oppure inaugura un ristorante. Non te ne importa niente, hai ben altri pensieri al momento, sono passati gli anni, hai perso amici, amanti, amori o genitori che forse non erano i tuoi, però niente scompare, c’è continuità nella materia, considera il carbonio, quello nella tua pelle stava già nella corteccia di una pianta nell’Età della Creta e il ferro nel tuo sangue è stato prima in un lupo e poi in un agnello, è un ciclo ininterrotto, come quello che ti provoca emicranie ogni mese, emicranie oppure mal di denti, reumatismi, nevralgie, tutti i giorni ce n’è una, non si può mai star tranquilli, per non dire di peggio, un tumore, un infarto, una figlia malata, lì è sufficiente il pensiero a tenere svegli, ma la stessa cosa vale se a star male è il tuo cane, d’altronde ci fanno compagnia da 50.000 anni, sono di famiglia e come il resto della famiglia sono un sostegno e un impegno, un aiuto e un intralcio, chi ti sta più vicino ti protegge, ti coccola, ti comanda e ti tortura, era già così quando i nostri antenati animisti sedevano attorno al fuoco raccontandosi storie, le stesse storie che ci raccontiamo oggi, le stesse paure, la stessa insonnia curata dando un senso ai fulmini e alle stelle, alla vita e alla morte, magari un senso arbitrario, magari un senso sbagliato, erano uomini e donne spaventati, cosa si poteva pretendere e anche tu sei un uomo che ha paura, una donna spaventata, non ti si può chiedere di più, hai fatto quello che hai potuto, che ti è riuscito e se hai fatto degli errori e li hai pagati stai a posto e se l’hai scampata e te la ridi sei un bastardo, sei una stronza, ma c’è spazio anche per te su questa terra, sei nel paesaggio, sei il paesaggio insieme a piante e vegetali, insieme alle montagne, ai fiumi e agli animali, per cui smetti di preoccuparti, appoggia la testa al cuscino, chiudi gli occhi, allunga le gambe, rilassa i muscoli… smetti di preoccuparti, appoggia la testa al cuscino, chiudi gli occhi, allunga le gambe, rilassa i muscoli… smetti di preoccuparti, appoggia la testa al cuscino, chiudi gli occhi, allunga le gambe, rilassa i muscoli…

 
 

Giovanni Locatelli (Gio Diesis su FB e IG), ingegnere e scrittore (e musicista), viaggiatore che ha perso o mancato qualcosa, o forse non esattamente perso… più come se stesse aspettando qualcosa, cowboy a cui non è stata data una giusta chance, a cui non avrebbero nemmeno dovuto darla o a cui dovrebbero dargliene un’altra. (cit. Malcom Lowry – Sotto il vulcano). Alcuni suoi racconti sono apparsi su Squadernauti, quiqui e qui.

 
 

Illustrazione originale di Carlotta Mazzi.


 
 
Carlotta Mazzi (03/04/1992)
Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ho conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltivo da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale sono occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. Alcune mie tavole sono apparse su Squadernauti, qui e qui.

 
 

Prima o poi incontreremo il mare

 
 
 
di Eduardo De Cunto
 
 
 
 
 
Giorno 177

Anna, mia adorata,

non potrai leggere queste righe, ma ti scrivo lo stesso, giacché è l’unico conforto di questo tempo disperato.

La staffetta non dà notizie di sé ormai da due settimane. Né potrebbe: è partita prima che l’agguato alle gole di Sudbina ci costringesse a ripiegare verso ovest. Le comunicazioni sono interrotte, nemmeno noi conosciamo la nostra posizione.

In mancanza di direttive, ho deciso che muoveremo verso nord. Prima o poi incontreremo il mare; da lì, proseguendo lungo la costa in direzione di levante, raggiungeremo la capitale. Se Dio vorrà, ci ricongiungeremo al resto dell’esercito alle porte di Ničije Mesto.

Ora il nemico da affrontare è la penuria di viveri. Non vi è possibilità di rifornimento: pochi giorni ancora e finiranno.

Tuo,

Cristiano

 
Giorno 181

Anna, mio bene,

per la prima volta in vita mia soffro la sete.

I territori del Nord si sono rivelati inospitali: lo scenario è desertico, non abbiamo incontrato corsi d’acqua, né flora, né fauna, fatta eccezione per i serpenti. La truppa si nutre di quelli, ma ormai è allo stremo. All’orizzonte, verso ponente, si scorge un profilo montuoso. Andremo lì, nella speranza di trovare l’acqua.

Tuo,

Cristiano

 
Giorno 183

Il Tribunale delle Nazioni non mi assolverebbe. È dunque un bene che non possa consegnare queste carte alla staffetta, altrimenti nemmeno potrei scriverle. Non potresti perdonarmi neanche tu, Anna, moglie mia, pur conoscendo l’uomo che sono. Prego allora che mi assolva Dio.

Nella valle ci siamo imbattuti in un villaggio.

Più ancora che questa terra ostile, stiamo esplorando la nostra natura. Gli uomini, dopo giorni di fame e fatica, avevano sguardi di bestie. La guerra fa anche questo, ci consegna uno specchio che riflette la verità di ciò che siamo.

Ho lasciato che mettessero a sacco il villaggio. L’ho fatto per la mia salvezza: tenere a freno i soldati non era più possibile. Alcuni ordini non possono esser dati, per quanto li impongano le leggi scritte e i trattati della guerra. In certe situazioni, vigono leggi non scritte, più crudeli ma più coerenti con il nostro mestiere.

L’insediamento era pressoché sguarnito: i loro uomini sono tutti a difesa della capitale. La poca resistenza che abbiamo incontrato è stata spezzata con ferocia. Ogni casa è stata depredata.

I miei soldati non avevano solo fame di cibo, ma anche di donne. Ho lasciato che saziassero anche questo bisogno: non mi trovo in una posizione di forza e non posso rischiare ammutinamenti o diserzioni.

Non consentirò tuttavia che accada ancora.

Lo sguardo di una donna mi ha ferito. Aveva i tuoi occhi, quelli che hai dato a nostro figlio Andrea, la loro stessa malinconia. Mi ha ferito e ha risvegliato un demone che alberga anche in me: ho provato a mia volta un desiderio di bestia.

Aveva i tuoi occhi ma non sei tu, mia salvezza, mia luna sempre piena nella notte.

Non ho violentato quella donna.

Proseguiremo ancora verso nord. Il contatto con la popolazione ha giovato al corpo degli uomini, ma non al loro spirito. Sono spaventati. Sostengono che le donne di Istina possiedano arti magiche, e che il Nord sia terra di stregoni. Ho vietato che si diffondano tali dicerie, pena la fustigazione. Non voglio che le superstizioni di questo popolo barbaro entrino nelle menti dei miei soldati. Andremo a nord, mostrerò loro che non c’è nulla da temere, se non l’esercito nemico. Se Dio vuole moriremo in battaglia. Quando ci penso non provo dolore, ma sollievo. L’unico rammarico è per te. E forse per mio padre: non tramanderò il suo cognome.

Tuo,

Cristiano

 
 
Giorno 191

Anna, amore mio,

il mare è ancora lontano.

Non abbiamo incontrato altri insediamenti, e questo è un bene per la salvezza delle nostre anime. Ci siamo imbattuti però in un camposanto, con migliaia e migliaia di sassi disposti a cumuli. È segno che altri insediamenti non sono lontani.

Quella dei sassi è l’usanza del luogo. L’interprete mi ha spiegato che sono deposti sui sepolcri in caso di morte prematura, e rappresentano gli anni non vissuti. Deve allora trattarsi di un cimitero di guerra; i seppelliti sono giovani, a giudicare dalla quantità di pietre: una per ogni anno in meno rispetto ai cinquant’anni d’età, la loro aspettativa di vita. Ogni sasso è posato perché gravi sulla terra e l’affanni.

Accanto a uno dei cumuli, su una tavola di legno, era incisa una scritta. Ho chiesto all’interprete di tradurla. Lui non voleva. Mi ha detto che era una poesia, e che non era stata scritta per noi stranieri. Persino quest’uomo che tradisce il suo popolo, di fronte ai sepolti, ha avuto un sussulto di dignità. Non l’ho punito per questo, ma l’ho pregato di tradurla ugualmente, perché anche il carnefice potesse tributare omaggio alla vittima. Allora lui ha mormorato:

Accanto

alle rovine

rimane

la piazza,

Dule mio,

a contenere il tuo ricordo.

A volte vi ritorno

a spiare

le bocce dei vecchi

rotolare,

e sollevare polvere.

Mancassero,

potrei immaginarla

anche senza di te.

Non so se fosse un lamento di madre o di moglie. Mi ha commosso.

Tuo,

Cristiano

 
Giorno 192

Anna, anima mia,

la scritta accanto al cumulo di sassi ha fiaccato la mia determinazione. Ma sono un comandante, e devo anteporre il dovere verso la Patria alle bizze del cuore. È sera tarda e per stanotte ci accamperemo. All’orizzonte appare un altro villaggio.

Proteggi il mio sonno,

tuo,

Cristiano

Giorno 193

Abbiamo ancora viveri, ma non so se potremo recuperarne altri prima di arrivare al mare. Spero ci consegnino le scorte senza combattere: questa volta le donne andranno risparmiate, e se possibile anche i pochi uomini rimasti. Ho disposto la fucilazione per chi trasgredisce.

Anna, il filo di cui tieni un capo mi trattiene alla soglia della follia. Ma ho paura si spezzi. Tra i soldati si sono diffusi racconti di stregonerie, nonostante il divieto, e la loro paura mi contagia. Solo a te, e solo per immaginazione, posso confessare ciò che a loro nego: questo popolo ha qualcosa che mi turba. Le loro parole, i loro sguardi, suonano stranamente familiari. È come se condividessimo gli stessi fantasmi.

Tieni stretto il filo, mio amore, mio irritrovabile approdo.

Tuo,

Cristiano

 
Giorno 195

Cara Anna, moglie mia (o mio sogno d’ambra?),

la realtà sembra smembrarsi davanti ai miei occhi, a stento trattengo il ricordo del tuo viso e della tua figura.

La sortita nel villaggio ha avuto un esito del tutto imprevisto. Gli uomini sono stati respinti, ma non dalle armi. Sono tornati indietro in preda a un sortilegio, piangendo come bambini. Sostengono che i villani abbiano facce cangianti, e di aver visto nelle case…

Follie, mio fiore, follie che non riporto. Soffrono la mancanza dei propri cari e qualcosa deve averli suggestionati. Ho detto loro di riposarsi: sono uomini stremati. Ho provato a quietarli. Ma a me niente porta quiete, se non la tua ombra.

Ieri non sono entrato nel borgo, ho lasciato che a presidiare l’operazione fossero i luogotenenti. Ma è stato un errore: non possiamo rinunciare al rifornimento, domani andrò io stesso a vedere.

Tuo,

Cristiano

 
Giorno 196

Anna, mia ragione smarrita,

il filo che tenevi si è spezzato, e io non sono più né un soldato, né un uomo assennato. Non raggiungeremo Ničije Mesto, non morirò combattendo.

Le vie del villaggio erano deserte, ma dalle finestre una foresta d’occhi controllava ogni nostro passo. Gli Istini hanno occhi scuri di noce, occhi come i tuoi, mio spirito del mattino.

Ho varcato la soglia di una casa. Era minuscola, e sembrava vuota. Stavo per uscirne, quando un fuciliere mi ha fatto notare una piccola porta, celata da un pesante cassettone. Un nascondiglio. Abbiamo spostato il mobile e sono entrato.

Ho lasciato che gli occhi si abituassero al buio del ripostiglio. Per ciò che ho visto poi, ho temuto che il cuore mi cedesse.

Lui era lì, accanto al cibo, rannicchiato con le spalle al muro e le braccia avvolte alle ginocchia. Il colore dei suoi capelli era quello che abbiamo amato. La sua pelle di seta scura, la pelle che ti ha rubato, era la stessa, la medesima, proprio quella che sai. E lo sguardo che mi ha trafitto, quando ha sollevato il capo… pure quello era il suo, di nessun altro al mondo.

Lì, sul pavimento di quella casa, in quel borgo remoto e straniero, c’era Andrea, nostro figlio. Aveva l’età di quando lo perdemmo.

 

Eduardo De Cunto è nato a Benevento nel 1983. Ha condotto studi giuridici e oggi vive e lavora a Bari. Voleva tuttavia fare anche qualcosa di serio, per cui scrive canzoni, racconti, romanzi. Recentemente, alcuni suoi racconti sono apparsi sulla rivista Risme, nella raccolta Come salmoni, a cura della Lorem Ipsum, sulla rivista Voce del verbo. Altri racconti appariranno a breve su altre riviste: non si impara mai dagli errori passati. Collabora ogni tanto con il blog letterario Vita da editor.

 

Illustrazione originale di Sara Camagnoni.

 

Sara Camagnoni (Reggio Emilia, 1980). Vive e lavora da sempre in natura e con gli animali. Ama disegnare, soprattutto cavalli, le piace sperimentare e sperimentarsi con altre tecniche, strumenti e temi.