Perdersi

 
 
 
 

Perdersi, scritto da Annie Ernaux, pubblicato in Francia da Gallimard nel 2001 e uscito ora in Italia per L’orma editore (ottobre 2023, traduzione di Lorenzo Flabbi), è il puntuale resoconto di un’ossessione.

Meglio ancora: è il tentativo di comprenderla, l’ossessione, per poterla circoscrivere e dominare. O forse è, più semplicemente, il disperato gesto di cristallizzare, attraverso la scrittura, almeno la memoria di un sentimento per propria natura travolgente, irriducibile a logica, impossibile da confinare.

Tra il settembre del 1988 e l’aprile del 1990 Annie Ernaux (che si è legittimamente tentati di far coincidere con l’autrice dell’opera) tiene un diario, con frequenza pressoché quotidiana, in cui trascrive la passione amorosa per S., diplomatico sovietico conosciuto durante un viaggio in Unione Sovietica e in quei mesi di stanza a Parigi.

Come accade per ogni relazione assoluta, priva di mediazioni intellettuali, non esiste alcuno sviluppo, al punto che le pagine del diario potrebbero addirittura essere lette in ordine casuale.

L’unica divisione plausibile è quella tra i momenti di presenza e di assenza di S. Nei primi, Annie Ernaux vive un’intensissima avventura fisica, erotica, nella quale rivela senza pudore il suo atteggiamento servile, quasi masochistico, nei confronti dell’amante: “Ricordare il turbamento sul suo volto quando gli dico: «Ovunque, in qualsiasi momento, puoi chiedermi qualsiasi cosa, te la darò, la farò per te»” (p. 186).

Annie riconosce il relativo coinvolgimento di S. nel rapporto, ne coglie la semplicità e rozzezza, eppure non sa fare a meno di lui, né la superiorità intellettuale della scrittrice è sufficiente a preservarla da una chiara (ed esibita) dipendenza psicologica.

E poi ci sono gli attimi di attesa di S., che appare come sfuggente e avaro di attenzioni. Qui Annie Ernaux esprime l’intero campionario di ansie e ingenuità, probabilmente vissuto da ogni essere umano che si sia trovato in balìa della ferocia amorosa: “In fondo credo sia impossibile che non ci rivedremo. Sì, però quando?” (p. 16). Oppure: “È ovvio che se un uomo non mi chiama neanche una volta in quindici giorni vuol dire che per me non prova nulla” (p. 131).

E allora, verrebbe da domandarsi con una certa malizia, in cosa Perdersi si eleva da un qualunque diario intimo tenuto da una persona ciecamente innamorata e non pienamente corrisposta?

Le peculiarità dell’opera, che le restituiscono dignità letteraria, sono almeno due. Anzitutto, proprio il resoconto diaristico compone una frontale testimonianza di onestà. Non solo Annie Ernaux palesa la sua sottomissione a S., ma nemmeno si rifugia in facili artifici come l’eufemizzazione o l’ironia: vive la propria condizione in tutta la sua drammaticità. E in tutta la sua apparente assurdità: una scrittrice affermata preda del desiderio di un uomo egoista e dai modi spesso sbrigativi.

Proprio la testimonianza scritta di questo perdersi rappresenta un ulteriore valore, perché si pone in dialogo con la passione amorosa. In alcuni passaggi, come dicevamo, la scrittura dà l’illusione di poter governare l’ingovernabile. Altrove, poiché passione anch’essa senza ripari, è percepita in opposizione al rapporto con S.: “O il lavoro intellettuale o perdermi, non ci sono altre alternative” (p. 121).

Ma poi la presunta dicotomia si compone, perché la vera scrittura, come il vero amore, è corpo a corpo con l’indicibile, viaggio verso un altrove non amministrabile. E, forse, la scrittura e l’amore più intensi sono puri atti di devozione all’ignoto, nel compimento dei quali la pagina o la persona amata non sono che strumenti: “Sensazione molto forte che la passione, come quella che ho avuto per S., e la scrittura siano valori imprescrittibili, e con loro l’idea di purezza che gli viene attribuita, di bellezza” (p. 229, corsivo nel testo).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

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