Autore: Claudio Bagnasco

Città in rovine

 
 
 
 

Con Città in rovine (uscito in Italia per HarperCollins nell’aprile 2024, traduzione di Alfredo Colitto) si conclude la trilogia noir dedicata a Danny Ryan, iniziata con Città in fiamme e proseguita con Città di sogni.

E si conclude anche la carriera letteraria di Don Winslow, che ha scelto di dedicarsi all’attivismo politico (o più precisamente, come egli stesso ha dichiarato in svariate occasioni, a una strenua campagna denigratoria nei confronti di Donald Trump).

Città in rovine ci mostra un Danny Ryan maturo, che si è lasciato alle spalle gli anni della guerra per il controllo del New England tra la fazione irlandese (che ha finito per capeggiare) e quella italiana.

Ora Ryan abita a Las Vegas, è un ricco uomo di affari, socio occulto di due hotel di lusso. Ma è inquieto. Perché “il concetto di ‘abbastanza’ non esiste a Las Vegas, una città esagerata dove il troppo non è abbastanza, il successo è l’eccesso e il di più è sempre meglio.
Hai un regno, aveva pensato Danny, ma vuoi un impero” (p. 71).

E così, Danny Ryan brama di trasformare un hotel in un enorme resort, sottraendolo al gruppo imprenditoriale rivale che sta per concluderne l’acquisto. Per riuscire nell’intento, tuttavia, dovrà permettere al proprio passato di riaffiorare. Ma siccome si tratta di un passato di malaffare, la prima mossa in quella direzione ne scatenerà inevitabilmente altre, che lo trascineranno in una nuova e sempre più sanguinosa battaglia.

Nella sua ultima opera, Winslow dimostra ancora una volta di saper maneggiare con grande disinvoltura tutti gli strumenti necessari a confezionare un noir impeccabile: la trama è solida e ricca di colpi di scena; atmosfere e toni da tragedia e commedia si alternano con sapienza; i personaggi sono vividi, umanissimi nei loro dilemmi morali e allo stesso tempo emblematici. Spicca poi una profonda conoscenza dei vari ambiti trattati nelle oltre quattrocentocinquanta pagine del volume, da quello legislativo a quello finanziario, per prendere solo due esempi.

Ma c’è, soprattutto, la conferma che Don Winslow ha saputo elevare il noir da cosiddetta narrativa di genere a epica contemporanea. Nelle atmosfere shakespeariane dei suoi poderosi romanzi l’amore, l’odio, la fedeltà, il tradimento, il potere e il denaro muovono, miscelandosi tra loro in percentuali differenti, tutte le azioni.

In Città in rovine poi, scritto e probabilmente pensato come opera di addio, signoreggia qualunque gesto e progetto, anche il più ambizioso, un forte senso di precarietà. In fondo, a rivedere retrospettivamente questa trilogia e l’intero corpus di Winslow, ogni personaggio – come nella favola della rana e dello scorpione – ha semplicemente prestato fedeltà alla propria natura. E ha fornito il proprio personale contributo alla vanità del disegno complessivo: “Danny Ryan osserva il crollo dell’edificio. […]
Guarda salire la polvere, una nuvola a fungo color marrone grigiastro contro il cielo azzurro e sereno del deserto.
Lentamente sbiadisce e poi scompare.
Ora non c’è più nulla.
Ho combattuto, pensa. Ho dato tanto per questo…
Nulla.
Per questa polvere” (pp. 438-9).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Uno su infinito

 
 
 
 

Nella premessa-cornice del libro, il medico di medicina generale Tancredi dice di aver ricevuto, due o tre anni prima, un testo speditogli da un giovane sceneggiatore. Conteneva la sbobinatura di alcune interviste che riguardavano la storia di un curiosissimo programma televisivo, That’s (im)possible.

Il titolo del programma corrisponde a quello con cui il lungo racconto di Cristò è uscito prima per caratterimobili e poi per Intermezzi, dopo di che è stato dato alle stampe da TerraRossa (2021) con il più eloquente titolo Uno su infinito (racconto orale). Perché, se la parentesi conferma che le ottanta pagine del volume sono composte unicamente da stralci di interviste pervenute a Tancredi, Uno su infinito si riferisce alla bizzarra lotteria che in breve tempo ha portato il programma di un’emittente locale italiana al successo planetario.

Uno su infinitoNel concorso settimanale ideato da Bruno Marinetti, i partecipanti devono indovinare un numero qualsiasi. Qualsiasi, appunto: da zero a infinito.

L’illogica regola su cui si basa la lotteria non è sufficiente ad arginare un entusiasmo sempre più ampio. Dice Tony Morisco, venditore di auto usate: “Costava così poco giocare e si poteva vincere così tanto che alla fine non me ne fregava niente di ciò che dicevano: che era truccato” (p. 14).

Palmare, nello spunto che innerva la narrazione, il riferimento alle suggestioni di massa, oggi più che mai frequenti e rapide a dilagare tramite le piattaforme social, per cui ci si trova ad aderire e condividere (a colpi di clic) non per intima convinzione, ma per fiducia prerazionale e terrore della solitudine.

Tuttavia l’aspetto sociologico di Uno su infinito è sommosso dalle dichiarazioni di Martinetti, e dai motivi che lo hanno indotto a dare vita all’assurdo gioco. Motivi che hanno a che fare con le figure del padre Enrico e della sorella Sofia. Il primo è stato un sindacalista morto nell’indifferenza generale ma venerato dal figlio: “Non se lo ricorda quasi più nessuno ma mio padre è stato un grande uomo” (p. 24); la seconda, una ragazza debilitata da una malattia che l’ha resa catatonica, sarà l’involontaria ispiratrice della lotteria ideata da Bruno.

Il quale, in un corto circuito generato dal doppio debito morale verso l’uno e l’altra, sogna anche lui – come il padre – la rivoluzione, che avrebbe addirittura attuato egli stesso, intervenendo in modo illecito nel gioco.

Nel finale di Uno su infinito, poi, si insinua l’elemento del soprannaturale, com’era capitato con La carne, altra opera di Cristò da noi recensita (con cui svariati sono i punti di tangenza, a partire dal personaggio di Tancredi).

Inserire nella vicenda accadimenti che superano la logica usuale potrebbe avere la funzione di segnare l’incolmabilità della distanza tra la verità e l’esistenza degli umani, che consumano le proprie giornate nell’illusione di un gesto automatico capace di fare il destino amico, di recuperare il senso perduto. In questa ambizione non c’è differenza tra i giocatori della lotteria e il suo inventore: gli uni e l’altro hanno vissuto vagheggiando l’impossibile.

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Invisibili

 
 
 
 

Ai giocatori di Go

 
 

“Negli ultimi dieci anni, il maestro ormai anziano aveva preso parte soltanto a tre competizioni a livello agonistico. E ogni volta si era ammalato nel pieno svolgimento della gara. Dopo la prima di queste partite la sua salute era rimasta malferma; dopo la terza sarebbe morto” (p. 52).

 
Scegliere l’intensità, rifiutare l’estensione. Perché la vita si sviluppa in un punto, dispersione è l’ampiezza.

 
“Il maestro non era stato spinto a quella sfida solo dal prestigio di un grande editore e dal compenso che avrebbe ricevuto, ma anche dalla consapevolezza di esibirsi per amore dell’arte; lo spirito combattivo non aveva mai cessato di bruciare dentro di lui. Se solo avesse sospettato di perdere, probabilmente non si sarebbe esposto in quel modo. Fu come se la sua vita si spegnesse nel momento stesso in cui cadeva dal suo capo la corona dell’invincibilità” (p. 60).

 
Ma nemmeno la massima intensità annulla la presenza del corpo, ed è lì che la vanità attecchisce. No, neppure l’immobilità: le statue sono corpi in mostra. Forse per vivere davvero bisognerebbe diventare invisibili.

 

 

(Suggestioni e citazioni tratte da Yasunari Kawabata, Il maestro di Go, traduzione di Cristiana Ceci, Studio Editoriale, Milano 2001)

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Manualetto per la prossima vita

 
 
 
 

Più che per fornire un vademecum a chi dovesse capitare al mondo una seconda volta, si ha la sensazione che Ermanno Cavazzoni abbia scritto Manualetto per la prossima vita (Quodlibet, febbraio 2024) allo scopo di offrirci una propria metafisica, magari tascabile e trasognata ma in fondo rigorosissima.

È Cavazzoni stesso a dichiararlo nella premessa, che svela la composizione dell’opera: “ogni capitolo [sette più quello conclusivo, brevissimo, N.d.R.] tratta in ordine di sei questioni inevitabili, che riguardano: la vita, la morte, il cosmo, i casi quotidiani, il fatalismo che più o meno consiglio, e l’aldilà come in genere, qui, su questo pianeta, si suppone che sia.
L’ultimo capitoletto condensa con un esempio tutte e sei le questioni” (p. 7).

Il Manualetto sembra nascere dal desiderio di testimoniare la vacuità degli umani affanni, che hanno come approdo ultimo la morte, dunque il fallimento più completo e definitivo. Con ironia inevitabilmente malinconica, Cavazzoni ora si prende gioco delle nostre inclinazioni e abitudini, ora fantastica universi alternativi o esistenze ulteriori, che ci consentirebbero di vivere una vita un po’ meno insensata.

Appartiene alla prima categoria di argomentazioni, ad esempio, la seconda sezione del settimo capitolo, intitolata “L’esposizione prolungata agli opinionisti TV porta l’uomo al suicidio” (p. 213). Per evitare che ciò accada, l’autore chiede di rafforzare la legge che vieta la libera detenzione di armi, perché “l’esposizione prolungata alla TV genera una tipica sindrome, per cui l’uomo comune, in mancanza di un canale di sfogo, si sfoga su se stesso sparandosi. Qualcuno va in bagno e si annega o tenta di annegarsi sotto la doccia. In tal caso la legge è impotente, non si può vietare in via preventiva l’uso dell’acqua” (p. 216).

Della seconda categoria fa invece parte l’irresistibile “Prima di vivere occorrerebbe una vita in prova” (p. 177), in cui Cavazzoni spiega che “nel sistema attuale, uno è gettato nel mondo senza esperienza, senza un manuale di istruzioni, in mezzo ai pericoli, alle tentazioni e alle insidie, tra sconosciuti, un po’ come se da un elicottero ti calassero nel centro della foresta amazzonica e tu dovessi cavartela, nudo, solo, tutt’al più con un coltello da cucina in mano, e attorno animali velenosi, piante spinose, coccodrilli e cannibali. Cosa faresti? ruberesti, uccideresti, diventeresti a tua volta cannibale. Io dico che questa vita è stata mal concepita fin dalle origini. Dovevano metterne una precedente di prova. Non so di chi è la colpa. L’uomo commette il male per inesperienza” (pp. 179-80).

La prospettiva del Manualetto per la prossima vita sarà paradossale, il piglio giocoso, eppure il libro, si diceva, affronta questioni ultime con coraggio e disincanto: non c’è rimedio alla fine, e ogni vita considerata dal punto estremo è un ansioso accumulo di esperienze inutili, che si consumano con l’obiettivo illusorio di giustificare la nostra presenza terrena.

Ermanno Cavazzoni paragona più volte l’esistenza a uno spettacolo teatrale, un trambusto preceduto e seguito dal silenzio. Perciò, che fare? Come non cadere nella più cupa disperazione? Forse fingendo davvero che vivere sia partecipare a una grande narrazione. Atteggiamento che può dare un duplice, minimo sollievo: quello di sapersi parte di un’eterna vicenda in cui non esistono privilegiati, e quello di immaginare ciò che ci accade come se accadesse al personaggio di una fiaba.

È quanto Cavazzoni scrive nella suggestiva quinta sezione del settimo capitolo, “La grande fiaba in cui siamo dentro” (p. 229), forse la micronarrazione in cui, più che in ogni altra, il cinismo lascia spazio all’indulgenza. L’autore ci dice infatti che ogni accadimento, per quanto vissuto con intensità, grazie all’azione del tempo si scioglie appunto in materia narrativa, “si stringe il tutto in una specie di film appassionato che allora non si era stati capaci di raccontarsi; un po’ perché si era nel mezzo della vicenda e non si vedeva l’intero; un po’ perché nella vita le cose sono diluite e miste, sono tante, frammentate, accavallate. La vita passa via e si resta con niente, o con dei ricordi e poi con dei rimpianti” (pp. 229-230).

Ecco allora che, da questa prospettiva, non solo la vita ma pure la scrittura può recuperare un barlume di senso: “La letteratura è una macchina che ci dà in prestito le fiabe che non abbiamo saputo vedere quando c’eravamo dentro” (p. 231).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Mostri meno noti del ventunesimo secolo

 
 
 
 

Mostri meno noti del ventunesimo secolo (scritto da Kim Fu e uscito in Italia per Racconti Edizioni nel gennaio 2024, traduzione di Chiara Reali) ci dice molto fin dal perentorio titolo.

Parlandoci del tempo presente, anzitutto, l’opera non è una distopia ma semmai un’ucronia. E non è una differenza di poco conto: l’ambientazione contemporanea nega al lettore riparo e assoluzione. Ciò che si legge, insomma, sarebbe potuto accadere oggi. Ma si badi, c’è anche la prima parte del titolo, che insinua un dubbio inquietante: è forse possibile che quegli esseri mostruosi siano già tra noi, ma per disattenzione (o proprio per la loro minore notorietà) non ne stiamo percependo la presenza?

La risposta sembra essere affermativa, se si interpretano i dodici racconti che compongono Mostri meno noti del ventunesimo secolo non in senso letterale, bensì come altrettanti punti di vista sui tormenti peculiari della nostra epoca. Sono narrazioni che, scaturite da una fantasia mobile e vivacissima, spaziano tra i generi, offrendo storie sempre godibili e che permettono di intravedere significati ulteriori.mostri meno noti del ventunesimo secolo

Liddy, la prima a volare, ad esempio, è la vicenda di una ragazzina a cui spunta e si sviluppa un paio di ali alle caviglie. Liddy metterà a parte le amiche di questo segreto, ma loro non ne ricaveranno eccessiva sorpresa, al punto che viene da domandarsi se la metamorfosi sia reale o declinazione ultima della fantasia infantile, strenua resistenza all’ingresso nell’universo adulto: “In un certo senso le ali di Liddy non ci sembravano una cosa straordinaria. Avevamo appena chiuso i cancelli del regno di finzione, ma la luce filtrava ancora attraverso le grate” (p. 28).

In Dopo aver ucciso mia moglie, una coppia benestante si assicura una curiosa solidità coniugale: di tanto in tanto il protagonista maschile uccide la moglie Connie (la quale invece ha ucciso il marito una sola volta). Ma è un trauma relativo per entrambi: una stampante 3D ricostituisce una nuova Connie nel giro di pochi minuti. Anche qui, la moglie rediviva non prova mai trasalimento per le periodiche, micidiali reazioni del marito alla monotonia coniugale: “Non mi aveva chiesto perché lo avessi fatto. […] Non mi aveva chiesto se fosse per il modo in cui sospirava ogni volta che dovevo chiederle dove tenevamo le lampadine. Non mi aveva chiesto se fosse perché sempre più spesso, guardandola in faccia, vedevo il mio stesso volto, un’inquietante deriva familiare, il grasso che si depositava negli stessi punti, perché invecchiando stavamo diventando la stessa persona, frutto del consumo delle stesse cose, dell’esposizione alle stesse cose, di un contagio reciproco” (p. 115).

Nel mirabile Maggiolini, debitore di H.P. Lovecraft nelle atmosfere e di Raymond Carver nello stile, Martha si trasferisce in una casa infestata dagli insetti che danno il titolo al racconto. Poco per volta si scoprirà che la giovane donna si è lasciata alle spalle un rapporto con un uomo diventato violento, e non è dato di sapere – né in fondo è importante – la quota di autenticità dell’una e dell’altra situazione angosciosa.

Nel racconto che chiude l’opera, Te le ricordi le caramelle?, tutti i cibi perdono di colpo i loro sapori, ma Allie imparerà a risvegliare nei clienti il ricordo delle liete sensazioni fornite da ogni alimento. Mestiere forse meritorio ma di certo intriso di malinconia, il suo: “Il piacere sensuale e vitale su cui sono state costruite intere culture, che ha fatto sorgere e cadere imperi, morirà con Allie e i suoi coetanei” (p. 245).

Alcuni tra i più spaventosi mostri del nostro tempo si dividono dunque le pagine dell’opera di Kim Fu: l’invadenza della tecnologia, la violenza pubblica e privata, la solitudine, l’incapacità di percepire il confine tra reale e virtuale. Tuttavia (ed ecco perché si tratta di mostri meno noti) è come se essi facessero ormai parte delle nostre vite in modo naturale, così da impedirci di riconoscerli come pericoli. O, peggio, come motori della quotidianità.

Ed ecco anche perché i personaggi di Mostri meno noti del ventunesimo secolo non sono capaci di provare stupore alcuno.

 

(Claudio Bagnasco)