Autobiogrammatica

 
 
 
 

Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio, uscito per minimum fax nel febbraio del 2024, è un’opera felicemente inclassificabile: la si può forse collocare al crocevia tra le forme del romanzo, del saggio e della memorialistica. È, potremmo dire affidandoci subito a un paradosso, una ricerca di identità e allo stesso tempo di libertà (che è in fondo evasione da ogni identità).

La dichiarazione di intenti dell’autore è solo parziale: “immaginare una vera e propria autobiogrammatica che ambisse a disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di sentire e vivere la lingua” (pp. 42-3, corsivo nel testo).

Se ci siamo permessi di parlare di parzialità è perché, senza scomodare la fin troppo citata proposizione di Wittgenstein, ogni rapporto con la lingua è rapporto col mondo.

Per cui, ed ecco che adesso proviamo a sciogliere il paradosso, Autobiogrammatica è un’investigazione sull’età giovanile dell’autore da una prospettiva linguistica, in due direzioni. Giartosio narra sia la sua inesauribile volontà di ricezione degli idioletti altrui, sia quella di costruire ed esperire una propria lingua. E una lingua riconoscibile come propria corrisponde all’istituzione di un punto di vista da cui nominare e frequentare il mondo: un’identità, appunto.

Ma l’approdo a una e una sola lingua implica l’abbandono di qualunque altra possibilità: ogni identità è univoca. Perciò il giovane protagonista di Autobiogrammatica, che ci sentiamo di far coincidere con l’autore, oppone continuamente resistenza all’imperio dei significati (e, come vedremo, anche dei significanti). In che modo? Imparando il multilinguismo materno, in cui coabitano anglicismi, locuzioni mutuate dai mass media e termini dialettali; inventando codici linguistici; appassionandosi di calembour ed enigmistica; producendo brevi testi surreali; affrontando la lettura e lo studio della poesia (che è l’àmbito in cui ogni parola, carica della sua massima tensione, è sempre sul punto di travalicare nell’altrove); e addirittura, dicevamo, scomponendo i significanti. L’opera è infatti corredata da fotografie e disegni dell’autore, e tra questi ultimi ne appaiono alcuni in cui le lettere dell’alfabeto vengono antropomorfizzate.

Qui il ragionamento avviato all’inizio della nostra recensione si chiude: persino la forma insolita e composita del libro è un ulteriore tentativo di svicolare da una sicura identificabilità (editoriale, stavolta).

Aggiungiamo che la ricognizione sulla lingua potrebbe pure essere un escamotage che permette a Giartosio di raccontare fatti anche intimi, tenendosi sempre al sicuro da ogni rischio di sentimentalismo.

E in effetti ne scaturisce un’opera proteiforme e vibrante, in cui si alternano episodi comici e drammatici, che appartengono sia alla dimensione privata sia a quella pubblica, politica, con una varietà di registri che l’autore sa sempre dominare con disinvoltura.

Un lavoro simile induce alla domanda che mai nessun lettore né critico dovrebbe farsi di fronte a un’opera letteraria: perché è stata scritta? Ma dal momento che, si è detto, Autobiogrammatica è soprattutto una ricerca di libertà, sotto la sua egida contravveniamo alle buone norme e forniamo il nostro tentativo di risposta. Giustapponendo due brevi estratti.

Leggiamo a p. 392: “Gli adulti, mi ero accorto, avevano tutti una caratteristica: non cambiavano più. Questa fissità li spintonava a poco a poco verso il pozzo dell’immutabilità definitiva, la disgustosa morte.”

E molto prima, a p. 147: “Voglio solo aggiungere un’osservazione: se tengo tanto alle parole, è perché nelle parole il tempo rallenta e si accumula”.

Allora viene da pensare che ripercorrere la propria esistenza attraverso la lingua può nascondere il desiderio irrealizzabile (ma umanissimo) di renderla eterna, di sfuggire al punto finale.

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

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