L’orizzonte degli eventi

 
 
 
 

“D’accordo, non mi sono presentato. È stato scortese. Non ve la starò a tirare in lungo col chiamatemi Ismaele, come tutti, e in ogni caso lo zingaro c’est pas moi, a scanso d’equivoci” (p. 23, corsivo nel testo). La precisazione, sincera o meno lo deciderà il lettore, arriva già in apertura del secondo capitolo: le due voci che animano L’orizzonte degli eventi di Vittorio Giacopini (Mondadori, febbraio 2024), confrontandosi e scontrandosi su una cospicua quantità di argomenti, non appartengono alla stessa persona. Eppure, sin dalle prime battute, la sensazione è che i due si trovino a fronteggiarsi per il tramite di uno specchio deformante. Tra sonno e veglia: “Sogni come allucinazioni, sogni bislacchi, e in ogni caso riflessi del grembo del tutto, falso-veri, logici ma di una logica altra, da indovinare” (p. 26); perché “Nei sepolcri scoperchiati del sogno c’è un’ultra-verità, e mica fa bene” (p. 109).

E allora chi è lo zingaro? Occhietti Azzuri, “il logorroico figlio dei figli del vento, il piazzista di lezioni di vita in versi sciolti o in rima baciata, a suo piacere, l’evocatore — ambiguo — di storie del passato, alla rinfusa, l’autorità monocratica […] che recita sentenze irrevocabili in stile pena-capitale sulla vita attuale, sul presente, l’imbonitore — presuntuoso e saccente — che ti legge la mano e ti dice il futuro, anzi… decide!” (pp. 27-28). Lo zingaro è lo scomodo interlocutore dell’io narrante che rovescia la prospettiva, smuove il sedimento e fa venire a galla quanto è invisibile dalla superficie. Cerbero mansueto e Virgilio riottoso che ne accompagnerà la discesa lungo le circonvoluzioni della mente.

L'orizzonte degli eventi

Siamo nel tempo della semi-reclusione causata dalla prima pandemia del nuovo millennio, divisi tra prudenza giustificata e psicosi, quando il mondo sperimenta paure tutt’altro che inedite e basta un’entità microscopica, o un banale incidente occorso a una nave cargo che si appresta ad attraversare il Canale di Suez, per cancellare illusorie certezze e ricacciarlo indietro di centocinquant’anni.

In tale contesto, abbandonato anche dalla figlia, il protagonista, o dovremmo dire la controparte in carne e ossa di questo duetto-duello (guarda caso disegnatore, scrittore e conduttore radiofonico, come lo stesso Giacopini), trascorre i giorni di confinamento tra infruttuosi tentativi di dedicarsi al lavoro, circondato da “libri magnifici, eloquentissimi: le incisioni di Rembrandt, l’opera grafica di Kirchner e Otto Mueller, gli sketchbook di Robert Crumb, i fumetti di Alberto Breccia, i fumetti di José Muñoz e Carlos Sampayo, i fumetti di Will Eisner” (p. 110); e, come miliardi di suoi simili, seguendo con compulsiva e masochistica attenzione gli aggiornamenti sui due fatti che dominano i notiziari: la missione a Wuhan degli ispettori dell’OMS, e l’insurrezione, al grido di “Viva la repubblica mondiale mediante la comune di Suez!” (p. 70), degli equipaggi sulle navi che attendono lo sblocco del canale.

Ed ecco, quindi, come la realtà, che ci viene narrata attraverso un tumultuoso flusso di coscienza, debordante di parole, immagini e citazioni, subisca il medesimo processo di vertiginosa anamorfosi che contraddistingue l’esperienza onirica infestata dallo zingaro, nella sua “iper-scenografica caverna di Alì Babà” (p. 83). Tanto che, pagina dopo pagina, il confine tra un luogo e l’altro, tra un tempo e l’altro, si va facendo più sfumato.

Nell’opera di Giacopini, che non è un romanzo e non è un pamphlet, tra soliloquio e closet drama, in questo terreno fertile e allo stesso tempo tossico, attecchiscono, come detto, una moltitudine di argomenti: dalla discriminazione razziale e del diverso, alimentata da preconcetti e ignoranza, al rinnovato, e forse mai sopito, timore per un incombente Armageddon, naturale o autoindotto; e poi i cambiamenti climatici, e quella che Franco Farinelli ha chiamato la smaterializzazione del funzionamento del mondo, come conseguenza dell’avvento dell’era digitale; il significato di libertà e di libero arbitrio, frainteso e depotenziato, nel torpore che ci vede passivi fruitori o meccanici esecutori del nostro tempo. Per citarne solo alcuni. Spesso i temi si sovrappongono, escono di scena, ritornano, si moltiplicano innestandosi uno sull’altro come frattali, in una proliferazione solo all’apparenza incontrollata. E nel confronto tra i due contendenti il particolare assurge all’universale, la stretta attualità si dilata e varca i confini temporali: “Ieri sarà ciò che domani è stato. E viceversa. Ogni tempo si incapsula in ogni tempo, tutto ritorna” (p. 61).

Attraverso lo sdoppiamento della voce, Giacopini esibisce l’esuberante e provocatoria complessità del proprio pensiero, con l’espediente del contraddittorio introduce la contraddizione come mezzo di indagine, cosicché il ricorso al dubbio si fa strumento indispensabile per la comprensione. E se è vero, come affermava Wittgenstein, che “I limiti del linguaggio significano i limiti del mondo, […] e immagino intendesse che il mio di mondo si estende sin dove l’unica lingua che intendo arriva o immagina o, diciamolo, sogna, o semplicemente si illude di arrivare” (p. 163, corsivo nel testo), per perseguire il proprio scopo, l’autore se ne serve senza alcuna parsimonia, con funambolica e a tratti sanguinetiana audacia:

“E mentre tutto questo caleidoscopio scoppietta, esplode, deflagra, saetta, sfuma, impiastra, si scompone e ricompone sullo schermo, lui — il tragico-buffo-impensabile-inavvisato-inevitabile Traum-Zigeuner —, il fuligginoso fratello del diavolo oggi in candida mise spaziale da qualche-nauta, intona uno dei suoi “stai-mo-a-sentire-gaggio-che-storia” che prelude al chiarimento finale, al gran spiegone. E la voce oggi è roca, sgraziata, ma non priva di sonorità suadenti, forse capziosamente magnetica, ipnotizzante” (p. 299, corsivo nel testo).

 
 
(Gianni Usai)
 
 

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