Autore: Gianni Usai

La ragazza unicorno

 
 
 
 

Ci è concesso conoscere soltanto il cognome del protagonista de La ragazza unicorno, primo romanzo breve di Giulia Sara Miori, uscito ad aprile del 2024 per i tipi di Marsilio. Ma sin dalle prime pagine il signor Cattaneo — un quarantenne ordinario con una vita all’apparenza tranquilla fino alla noia: una ex moglie, un buon lavoro da impiegato e le solite partite di calcetto nel fine settimana con quelli che fatica a chiamare amici — per noi sarà semplicemente il prigioniero.

La ragazza unicornoE già dall’incipit, attraverso una voce narrante caratterizzata con efficacia da una paratassi fluida e asciutta, veniamo a sapere quale sia il momento esatto in cui tutto ha inizio: “L’avevano prelevato il giorno del suo compleanno: il 27 gennaio 2022, alle 18.41. Era un giovedì e aveva appena finito di lavorare” (p. 13). Due sconosciuti si avvicinano al protagonista all’uscita dall’ufficio e spacciandosi per poliziotti lo convincono a salire sulla loro auto. Verrà bendato e condotto nel luogo della sua prigionia.

“La cella misurava due metri per tre. Era senza finestre. Completamente bianca: bianche le pareti, bianco il pavimento, bianca la luce che si diffondeva dalla lampadina sul soffitto. […] Il prigioniero abbassò lo sguardo sul proprio corpo. Indossava un’uniforme bianca, un paio di ciabatte bianche, un paio di calzini bianchi. Tirò l’elastico dei pantaloni per dare un’occhiata alle mutande. Non si stupì quando notò che erano bianche, senza scritte né etichette” (p. 28).

Il bianco ovunque, come simbolo dell’innocenza che il prigioniero professa a se stesso e ai propri carcerieri, il pelato e l’uomo coi baffi: “Sono una persona perbene, si disse a voce alta mentre d’istinto si voltava verso la finestra, che però non c’era. Non ho mai fatto del male a nessuno” (p. 52). Ma nell’atto di essere spogliato e privato del colore, c’è anche l’allusione al processo di espiazione e catarsi cui si appresta ad andare incontro, durante le infinite attese tra un interrogatorio e l’altro, nel silenzio e in una luce perenne che annullano lo scorrere del tempo, rimescolando il giorno e la notte in un presente indistinto fatto di domande, congetture, paura e certezze che poco alla volta si sgretolano. Perché la verità che il prigioniero ricorda e racconta non coincide con quella mostrata dalle prove in mano ai suoi misteriosi inquisitori.

E proprio stabilire la verità, non perseguire la giustizia o formulare un giudizio morale, pare essere il fine di quanto sta accadendo. Eccolo, allora, il rumore, flebile, quasi impercettibile eppure impossibile da ignorare. “Però non si trattava esattamente di un rumore. Era più un fruscio, come di foglie che si agitavano al vento. Forse sono le piume di un uccello, si disse, ma subito dopo si rese conto dell’assurdità di quel pensiero” (p. 71). “Era come se qualcuno, forse una donna, facesse strisciare per terra il lungo velo di un abito da sposa” (p. 80). Richiamando il battito del cuore rivelatore nel racconto di Edgar Allan Poe, quel non-rumore scandisce la discesa del protagonista tra le nebbie dell’indicibile, non in cerca di assoluzione, perché persino lui ormai dubita di sé, e nemmeno della libertà perduta, bensì in fuga da quello stesso silenzio che non è più in grado di sostenere.

Ma se la verità umana è materia malleabile, quanto è disposto a sacrificare il prigioniero, prima di rinnegare quella che ha plasmato a misura della propria coscienza?

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Gente alla buona

 
 
 
 

Quanti segreti nasconde la Gente alla buona di Mattia Grigolo (Fandango, 2024)? Quali colpe devono spartirsi ed espiare gli abitanti di un piccolo paese della Bassa padana, che negli anni Sessanta contava trecento anime e oggi se ne ritrova dieci volte tante? Eppure, niente è cambiato, il paese è ancora “Come un orecchio che da qualche parte ascolta quello che gli sta dicendo una bocca. E questo orecchio qui non c’ha una testa a cui è attaccato e quella bocca non ha una voce sola: è la bocca di tutti” (p. 84).

Il paese che ti possiede e non ti lascia andare, con “i suoi codici, la sua forma, l’amalgama di tutti quando tutti sono uno solo, anche chi non c’è, chi non c’entra, chi sta dormendo, chi è lontano, chi è già morto e chi deve ancora nascere” (p. 93). E così quelle colpe sembrano propagarsi dai genitori ai figli e dai figli ai genitori, nelle cinque decadi racchiuse nel romanzo e ripercorse seguendo una linea temporale che, tra passi in avanti e balzi verso il passato, si avviluppa attorno ai luoghi e alle anime che a essi appartengono.

Gente alla buonaSara, Brando, Larcher e Michele hanno tredici anni nel Natale del 1996, funestato da due morti che sconvolgono la comunità e sollevano sospetti. Alla loro età i gravami e i crucci della condizione umana li raggiungono solo di riflesso, quando gli adulti non sono capaci di proteggerne l’innocenza tenendoli per sé. Non possono immaginare che gli eventi di quelle ore finiranno per annodare indissolubilmente le loro vite e segnare per sempre quelle dei genitori, del giovane parroco, don Maurizio, e persino del povero Gianin, il matto dal braccio sifulo che vive in una catapecchia comunale con la sua cagnetta Mimì. Un’ombra nera, spessa e opprimente calerà sull’intero paese, sovrapponendosi alla nebbia che già ammanta le strade e offusca i pensieri, quando non è sufficiente il vino che l’Anna serve nel suo storico bar a pochi passi dalla chiesa.

Nessuno può sapere che quel giorno, quell’insignificante punto del tempo al quale la narrazione esterna tende in un continuo ritorno al presente, è sempre stato l’origine e la destinazione delle loro traiettorie esistenziali. Come se il tempo avesse memoria e si facesse carico dei ricordi, anche di quelli che non ci hanno ancora raggiunto o che vorremmo cancellare. E invece “Sono lì che aspettano di tornare quando si è più vulnerabili. E si è sempre fragili davanti al male. Le cose cattive sono più determinate delle cose buone” (p. 89), e alcune “ti restano appiccicate addosso, pure quando tutti gli altri fanno finta che non le vedono e a te ti sembra che non ci sono mai state, ma non è vero” (p. 117).

Il paese narrato da Mattia Grigolo è prossimità di anime che non annulla le solitudini: al contrario, le genera e le amplifica. Ogni accidente è dolore di tutti che si patisce per se stessi; ogni peccato è pena collettiva che si sconta entro gli angusti confini del proprio tormento. Il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il colpevole e l’innocente, la vittima, l’aguzzino e il salvatore. Colui che giudica e colui che viene giudicato, il confessore e il penitente. Sono categorie prive di confini e indistinguibili sagome in cerca di riparo nel silenzio delle strade buie e deserte. “Restano solo uomini, gente che ha passato un altro Natale e ora se lo beve, che ha accettato quello che il mondo, o forse soltanto quel piccolo paese della provincia padana, ha deciso per loro: chi il santo, chi la vittima, chi l’amico, chi il carnefice” (p. 187).

L’assoluzione e la condanna passano di bocca in bocca, ma nessuno le pronuncia perché la Gente alla buona non si ferma ad ascoltare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Ci vediamo in agosto

 
 
 
 

Un’affascinante quarantaseienne, un marito direttore d’orchestra, due figli, e una piccola isola caraibica destinata a trasformarsi in pochi anni in una frequentata meta turistica. L’abitudine di Ana Magdalena Bach di tornare da sola sull’isola, ogni 16 agosto, per depositare un mazzo di fiori sulla tomba della madre. E su questo irrinunciabile rito, mosso dal cuore e dallo spirito, ne attecchisce, quasi per caso, uno più carnale, impudico. Così quell’appuntamento innocente diviene occasione di incontro, attesa tutto l’anno, con uomini sconosciuti.

Potrebbe essere questa, in sintesi, la trama di Ci vediamo in agosto, inedito postumo di Gabriel García Márquez, uscito il 6 marzo in contemporanea mondiale e pubblicato in Italia da Mondadori nella traduzione di Bruno Arpaia. Il testo del premio Nobel naturalizzato messicano è preceduto da uno scritto impropriamente definito prologo e firmato da Rodrigo e Gonzalo García Barcha, nel quale i due figli di Márquez provano a giustificare la scelta di pubblicare l’opera di cui tanto si è parlato in questi anni e che lo stesso autore, si dice, avrebbe voluto distruggere. È poi seguito da una nota del curatore, Cristóbal Pera, che ne ripercorre le tappe della travagliata Ci vediamo in agostogenesi ed evoluzione attraverso i dubbi e i ripensamenti di Gabo, ormai consapevole del proprio declino intellettivo. Chiudono il piccolo volume, quattro pagine in facsimile del manoscritto in fase di elaborazione, sulle quali si possono leggere gli interventi autografi o dettati dall’autore alla sua segretaria.

Al netto dell’apparato di cui si è appena dato conto, Ci vediamo in agosto si riduce a poco più di ottanta pagine, che non raggiungono le 1300 battute e nelle quali la grande prosa a cui ci aveva abituati Márquez (anche quella senile e più rarefatta, ma ancora potentissima, di Memoria della mie puttane tristi, ultima opera pubblicata con l’autore in vita) fa solo sporadiche e sbiadite comparse. Le descrizioni sono scarne e spesso scontate, le ambientazioni spoglie e gli eventi scorrono via troppo rapidi fino all’artificioso tentativo di colpo di scena finale. Nel complesso, l’impressione è di avere a che fare con l’abbozzo di un progetto mai davvero approfondito. Non un racconto, come scritto da molti, ma l’intelaiatura di un romanzo al quale le lacune della memoria e le difficoltà cognitive dello scrittore hanno sottratto corpo, sostanza e potere immaginifico.

Si fatica a riconoscere il creatore di Cent’anni di solitudine, e delle altre opere che hanno segnato la letteratura contemporanea, tra ripetizioni, incoerenze e passaggi come quello che segue:

“Mentì raccontando che in albergo era saltata la luce e che la mattina non c’era acqua nella doccia, perciò era venuta senza aver fatto il bagno e con il sudore di due giorni. Però il mare era calmo e fresco ed era riuscita a dormicchiare a tratti durante il viaggio.

Lui saltò giù dal letto, in mutande, come dormiva sempre, e andò in bagno. Era gigantesco, sportivo e di una bellezza facile. Lei lo seguì e continuarono a chiacchierare, lui dalla cabina della doccia appannata e lei seduta sul coperchio del water, come facevano appena sposati” (p. 35).

Traspaiono, certo, la limpidezza dell’idea e l’ambizione di indagare l’animo della protagonista — e con lei di qualsiasi donna che si trovi nel medesimo momento della propria vita — intessendo sulla pagina le dinamiche emotive e le pulsioni che ogni anno la riportano sull’isola, di ricostruire in tal modo i complessi rapporti che la legano alla madre, al marito, al figlio e alla figlia, e anche agli sconosciuti con i quali condividerà clandestinamente il letto. Di tanto in tanto, Gabo compare tra le righe con la sua straordinaria capacità di immaginare mondi e popolarli:

“Si ammorbidì le labbra con un rossetto neutro, si inumidì gli indici sulla lingua per lisciare le sopracciglia ribelli, si diede una spruzzata di Maderas de Oriente dietro le orecchie, e finalmente affrontò lo specchio con il suo volto di madre autunnale. La pelle senza traccia di cosmetici aveva il colore e la grana della melassa, e gli occhi di topazio erano stupendi con le loro scure palpebre portoghesi. Si triturò a fondo, si giudicò senza pietà, e si trovò quasi bella come si sentiva” (p. 15).

Ma sono soltanto flebili lampi, che acuiscono il rimpianto per ciò che il suo genio avrebbe ancora potuto produrre. Nel leggere quest’ultima opera rinnegata, mentre si è tentati di pensare a una mera operazione commerciale, ci si sente al cospetto di un familiare splendore ormai esausto. A consolarci resta la consapevolezza che i romanzi sono quanto di più prossimo all’eternità la fantasia umana possa creare, e che per ritrovare quello splendore ci basterà aprire uno dei tanti capolavori che Gabriel García Márquez ha saputo regalarci:

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito” (Cent’anni di solitudine, incipit).

 
 
(Gianni Usai)
 
 

L’orizzonte degli eventi

 
 
 
 

“D’accordo, non mi sono presentato. È stato scortese. Non ve la starò a tirare in lungo col chiamatemi Ismaele, come tutti, e in ogni caso lo zingaro c’est pas moi, a scanso d’equivoci” (p. 23, corsivo nel testo). La precisazione, sincera o meno lo deciderà il lettore, arriva già in apertura del secondo capitolo: le due voci che animano L’orizzonte degli eventi di Vittorio Giacopini (Mondadori, febbraio 2024), confrontandosi e scontrandosi su una cospicua quantità di argomenti, non appartengono alla stessa persona. Eppure, sin dalle prime battute, la sensazione è che i due si trovino a fronteggiarsi per il tramite di uno specchio deformante. Tra sonno e veglia: “Sogni come allucinazioni, sogni bislacchi, e in ogni caso riflessi del grembo del tutto, falso-veri, logici ma di una logica altra, da indovinare” (p. 26); perché “Nei sepolcri scoperchiati del sogno c’è un’ultra-verità, e mica fa bene” (p. 109).

E allora chi è lo zingaro? Occhietti Azzuri, “il logorroico figlio dei figli del vento, il piazzista di lezioni di vita in versi sciolti o in rima baciata, a suo piacere, l’evocatore — ambiguo — di storie del passato, alla rinfusa, l’autorità monocratica […] che recita sentenze irrevocabili in stile pena-capitale sulla vita attuale, sul presente, l’imbonitore — presuntuoso e saccente — che ti legge la mano e ti dice il futuro, anzi… decide!” (pp. 27-28). Lo zingaro è lo scomodo interlocutore dell’io narrante che rovescia la prospettiva, smuove il sedimento e fa venire a galla quanto è invisibile dalla superficie. Cerbero mansueto e Virgilio riottoso che ne accompagnerà la discesa lungo le circonvoluzioni della mente.

L'orizzonte degli eventi

Siamo nel tempo della semi-reclusione causata dalla prima pandemia del nuovo millennio, divisi tra prudenza giustificata e psicosi, quando il mondo sperimenta paure tutt’altro che inedite e basta un’entità microscopica, o un banale incidente occorso a una nave cargo che si appresta ad attraversare il Canale di Suez, per cancellare illusorie certezze e ricacciarlo indietro di centocinquant’anni.

In tale contesto, abbandonato anche dalla figlia, il protagonista, o dovremmo dire la controparte in carne e ossa di questo duetto-duello (guarda caso disegnatore, scrittore e conduttore radiofonico, come lo stesso Giacopini), trascorre i giorni di confinamento tra infruttuosi tentativi di dedicarsi al lavoro, circondato da “libri magnifici, eloquentissimi: le incisioni di Rembrandt, l’opera grafica di Kirchner e Otto Mueller, gli sketchbook di Robert Crumb, i fumetti di Alberto Breccia, i fumetti di José Muñoz e Carlos Sampayo, i fumetti di Will Eisner” (p. 110); e, come miliardi di suoi simili, seguendo con compulsiva e masochistica attenzione gli aggiornamenti sui due fatti che dominano i notiziari: la missione a Wuhan degli ispettori dell’OMS, e l’insurrezione, al grido di “Viva la repubblica mondiale mediante la comune di Suez!” (p. 70), degli equipaggi sulle navi che attendono lo sblocco del canale.

Ed ecco, quindi, come la realtà, che ci viene narrata attraverso un tumultuoso flusso di coscienza, debordante di parole, immagini e citazioni, subisca il medesimo processo di vertiginosa anamorfosi che contraddistingue l’esperienza onirica infestata dallo zingaro, nella sua “iper-scenografica caverna di Alì Babà” (p. 83). Tanto che, pagina dopo pagina, il confine tra un luogo e l’altro, tra un tempo e l’altro, si va facendo più sfumato.

Nell’opera di Giacopini, che non è un romanzo e non è un pamphlet, tra soliloquio e closet drama, in questo terreno fertile e allo stesso tempo tossico, attecchiscono, come detto, una moltitudine di argomenti: dalla discriminazione razziale e del diverso, alimentata da preconcetti e ignoranza, al rinnovato, e forse mai sopito, timore per un incombente Armageddon, naturale o autoindotto; e poi i cambiamenti climatici, e quella che Franco Farinelli ha chiamato la smaterializzazione del funzionamento del mondo, come conseguenza dell’avvento dell’era digitale; il significato di libertà e di libero arbitrio, frainteso e depotenziato, nel torpore che ci vede passivi fruitori o meccanici esecutori del nostro tempo. Per citarne solo alcuni. Spesso i temi si sovrappongono, escono di scena, ritornano, si moltiplicano innestandosi uno sull’altro come frattali, in una proliferazione solo all’apparenza incontrollata. E nel confronto tra i due contendenti il particolare assurge all’universale, la stretta attualità si dilata e varca i confini temporali: “Ieri sarà ciò che domani è stato. E viceversa. Ogni tempo si incapsula in ogni tempo, tutto ritorna” (p. 61).

Attraverso lo sdoppiamento della voce, Giacopini esibisce l’esuberante e provocatoria complessità del proprio pensiero, con l’espediente del contraddittorio introduce la contraddizione come mezzo di indagine, cosicché il ricorso al dubbio si fa strumento indispensabile per la comprensione. E se è vero, come affermava Wittgenstein, che “I limiti del linguaggio significano i limiti del mondo, […] e immagino intendesse che il mio di mondo si estende sin dove l’unica lingua che intendo arriva o immagina o, diciamolo, sogna, o semplicemente si illude di arrivare” (p. 163, corsivo nel testo), per perseguire il proprio scopo, l’autore se ne serve senza alcuna parsimonia, con funambolica e a tratti sanguinetiana audacia:

“E mentre tutto questo caleidoscopio scoppietta, esplode, deflagra, saetta, sfuma, impiastra, si scompone e ricompone sullo schermo, lui — il tragico-buffo-impensabile-inavvisato-inevitabile Traum-Zigeuner —, il fuligginoso fratello del diavolo oggi in candida mise spaziale da qualche-nauta, intona uno dei suoi “stai-mo-a-sentire-gaggio-che-storia” che prelude al chiarimento finale, al gran spiegone. E la voce oggi è roca, sgraziata, ma non priva di sonorità suadenti, forse capziosamente magnetica, ipnotizzante” (p. 299, corsivo nel testo).

 
 
(Gianni Usai)