Cristóbal Pera

Ci vediamo in agosto

 
 
 
 

Un’affascinante quarantaseienne, un marito direttore d’orchestra, due figli, e una piccola isola caraibica destinata a trasformarsi in pochi anni in una frequentata meta turistica. L’abitudine di Ana Magdalena Bach di tornare da sola sull’isola, ogni 16 agosto, per depositare un mazzo di fiori sulla tomba della madre. E su questo irrinunciabile rito, mosso dal cuore e dallo spirito, ne attecchisce, quasi per caso, uno più carnale, impudico. Così quell’appuntamento innocente diviene occasione di incontro, attesa tutto l’anno, con uomini sconosciuti.

Potrebbe essere questa, in sintesi, la trama di Ci vediamo in agosto, inedito postumo di Gabriel García Márquez, uscito il 6 marzo in contemporanea mondiale e pubblicato in Italia da Mondadori nella traduzione di Bruno Arpaia. Il testo del premio Nobel naturalizzato messicano è preceduto da uno scritto impropriamente definito prologo e firmato da Rodrigo e Gonzalo García Barcha, nel quale i due figli di Márquez provano a giustificare la scelta di pubblicare l’opera di cui tanto si è parlato in questi anni e che lo stesso autore, si dice, avrebbe voluto distruggere. È poi seguito da una nota del curatore, Cristóbal Pera, che ne ripercorre le tappe della travagliata Ci vediamo in agostogenesi ed evoluzione attraverso i dubbi e i ripensamenti di Gabo, ormai consapevole del proprio declino intellettivo. Chiudono il piccolo volume, quattro pagine in facsimile del manoscritto in fase di elaborazione, sulle quali si possono leggere gli interventi autografi o dettati dall’autore alla sua segretaria.

Al netto dell’apparato di cui si è appena dato conto, Ci vediamo in agosto si riduce a poco più di ottanta pagine, che non raggiungono le 1300 battute e nelle quali la grande prosa a cui ci aveva abituati Márquez (anche quella senile e più rarefatta, ma ancora potentissima, di Memoria della mie puttane tristi, ultima opera pubblicata con l’autore in vita) fa solo sporadiche e sbiadite comparse. Le descrizioni sono scarne e spesso scontate, le ambientazioni spoglie e gli eventi scorrono via troppo rapidi fino all’artificioso tentativo di colpo di scena finale. Nel complesso, l’impressione è di avere a che fare con l’abbozzo di un progetto mai davvero approfondito. Non un racconto, come scritto da molti, ma l’intelaiatura di un romanzo al quale le lacune della memoria e le difficoltà cognitive dello scrittore hanno sottratto corpo, sostanza e potere immaginifico.

Si fatica a riconoscere il creatore di Cent’anni di solitudine, e delle altre opere che hanno segnato la letteratura contemporanea, tra ripetizioni, incoerenze e passaggi come quello che segue:

“Mentì raccontando che in albergo era saltata la luce e che la mattina non c’era acqua nella doccia, perciò era venuta senza aver fatto il bagno e con il sudore di due giorni. Però il mare era calmo e fresco ed era riuscita a dormicchiare a tratti durante il viaggio.

Lui saltò giù dal letto, in mutande, come dormiva sempre, e andò in bagno. Era gigantesco, sportivo e di una bellezza facile. Lei lo seguì e continuarono a chiacchierare, lui dalla cabina della doccia appannata e lei seduta sul coperchio del water, come facevano appena sposati” (p. 35).

Traspaiono, certo, la limpidezza dell’idea e l’ambizione di indagare l’animo della protagonista — e con lei di qualsiasi donna che si trovi nel medesimo momento della propria vita — intessendo sulla pagina le dinamiche emotive e le pulsioni che ogni anno la riportano sull’isola, di ricostruire in tal modo i complessi rapporti che la legano alla madre, al marito, al figlio e alla figlia, e anche agli sconosciuti con i quali condividerà clandestinamente il letto. Di tanto in tanto, Gabo compare tra le righe con la sua straordinaria capacità di immaginare mondi e popolarli:

“Si ammorbidì le labbra con un rossetto neutro, si inumidì gli indici sulla lingua per lisciare le sopracciglia ribelli, si diede una spruzzata di Maderas de Oriente dietro le orecchie, e finalmente affrontò lo specchio con il suo volto di madre autunnale. La pelle senza traccia di cosmetici aveva il colore e la grana della melassa, e gli occhi di topazio erano stupendi con le loro scure palpebre portoghesi. Si triturò a fondo, si giudicò senza pietà, e si trovò quasi bella come si sentiva” (p. 15).

Ma sono soltanto flebili lampi, che acuiscono il rimpianto per ciò che il suo genio avrebbe ancora potuto produrre. Nel leggere quest’ultima opera rinnegata, mentre si è tentati di pensare a una mera operazione commerciale, ci si sente al cospetto di un familiare splendore ormai esausto. A consolarci resta la consapevolezza che i romanzi sono quanto di più prossimo all’eternità la fantasia umana possa creare, e che per ritrovare quello splendore ci basterà aprire uno dei tanti capolavori che Gabriel García Márquez ha saputo regalarci:

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito” (Cent’anni di solitudine, incipit).

 
 
(Gianni Usai)