Nicola Napoletano

Adolesco

 
 
 

Pubblicato nel 2021 da Il ramo e la foglia edizioni, Adolesco di Timothy Megaride è un romanzo di formazione, che – con un ritmo ipnotico e incessante – mostra l’assenza di figure adulte tra gli esseri umani del mondo contemporaneo: non tanto e non solo, parrebbe, secondo una prospettiva socio-psicologica, ma da un punto di vista metafisico e ontologico.

È una dimensione, quella raccontata, in cui tutti sono figli, in cui l’apprendimento delle leggi della vita (a partire dal corpo, dalla sessualità, fino alle emozioni, ai sentimenti e ai pensieri) è delegato a qualche forma di compensazione, un riempimento di un’assenza non accolta, non attraversata.

Uno spazio in cui tutti sono impegnati a crescere (adolescere).

Un mondo in cui pare che la solitudine sia proprietà e rifugio, ricercata e inevitabile: una dimensione sostanzialmente separativa, alla quale nessuno può rinunciare.

Quella solitudine che il giovanissimo personaggio principale cerca maldestramente di frantumare, vivendo senza guida né direzione, dentro il contesto distratto e perbene della sua famiglia di avvocati in carriera.

Il protagonista del romanzo è Tommaso Rinaldi, un ragazzo di sedici anni che si racconta in una lunga registrazione: una vera e propria confessione, tenera e oscena, cerebrale e sentimentale, angosciata e presuntuosa, che si dipana lentamente a spirale tra cronaca privata e riflessione, digressioni e anticipazioni, intorno alla verità, alla fame e alla sete di verità.

“Ecco perché sto registrando ogni cosa su questo registratore che mi comprò mio padre quando ero alle medie perché dovevamo fare delle interviste e compagnia cantando al sindaco e andammo anche in Comune e c’era tutta questa gente in una grande sala dove fanno le riunioni che dicevano come sono bravi questi ragazzi, però noi le domande le avevamo tutte scritte e così non c’erano problemi. […] Non posso scrivere, che forse verrebbe una cosa più ordinata e pulita perché questi vanno a guardare dappertutto e dove cazzo le nascondo le carte? E poi il tablet è di mio padre così non posso scriverci sopra e compagnia cantando. Il registratore non se lo ricordano e non lo sanno che sto dicendo la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, tipo dica lo giuro”, p. 47.

Un punto di vista interno quasi fino all’ossessione, il suo, che mostra entusiasmi e contraddizioni, convinzioni e crepe.

Tommaso impara ciò che sa dai social network, dai film, dalle serie tv, dagli influencer. Dalle rigidità e dalle incoerenze del mondo degli adulti, sempre troppo esterno rispetto alla vita di cui lui si fa portatore.

Tuttavia il protagonista si getta anche con coraggio e cecità nel mondo delle relazioni, solo e analfabeta di sentimenti e ignorante di sé, delle possibilità e dei limiti del proprio corpo e della propria età. Impara dal dolore.

Saranno proprio i rapporti dal vivo, fatti di incontri e scambi, anche fisici, a permettergli di crescere e cambiare.

Una relazione si staglia sulle altre, quella con Giona Sarnelli, lo psicologo a cui lo affidano prima i genitori e poi il tribunale: un adulto.

Non si dirà oltre sulla trama, che è svelata a poco a poco, con uno stile capace di lasciar esprimere una silente e continua tensione, dentro la compattezza complessiva del romanzo.

Rispondendo alle domande di una intervista di Nicola Napoletano apparsa su BL Magazine, Timothy Megaride, pseudonimo dietro cui si cela un autore più volte edito, afferma: “[…] il carattere per lo più virtuale dei nostri legami produce narrazioni, non esperienza”.

Da un lato, dal romanzo emerge quanto sia importante la parola per esprimere, comunicare e incontrarsi al di là di una dimensione animale (la relazione tra Tommaso e Giona evidenzia il carattere luminoso del linguaggio, attraverso cui è possibile la scoperta e la conoscenza di sé e dell’altro, dentro la libertà da qualsiasi intento umano predatorio; la stessa confessione verbale di Tommaso, ad esempio, è un atto e un processo di elaborazione e consapevolezza; e, ancora, la riflessione del protagonista sulle parole rende visibile il valore vitale della riflessione linguistica); dall’altro, sembra innegabile che il mondo narrato – il nostro – sia, appunto, narrato, cioè prigioniero di un eccesso di intelligenza, di discorsi, di rappresentazioni, di significati, di costruzioni e di difese che impediscono di sentire – e non in senso univocamente sentimentale – l’accadere della presenza, cioè di fare esperienza.

Verrebbe da dire, quasi con un’esagerazione, che attraverso i personaggi del suo romanzo Megaride ci mostra quanto nella vita umana vibri un sovrappiù di intelligenza persino nella stupidità – intesa fuori dalla dimensione del giudizio quale totale disarmo davanti alla vita – e nell’ignoranza del protagonista.

Un’intelligenza che ha esistenza propria e rimane confinata in spazi predefiniti dentro di noi: resta separata dai nostri corpi e finisce per non poter essere condivisa né trasmessa ai figli. Un’intelligenza che lascia noi stessi figli, come un talento incapace di servire la vita che ci attraversa, e che ci fa sperimentare la nostra verità dolorosamente antropocentrica.

“Quando tornai a casa andai a guardare sul vocabolario il significato di supino. Vabbè, in italiano, è un aggettivo con molti significati, e vuol dire anche sottomesso. Allora pensai che la parola latina adultum era un supino e significava sottomesso e l’esempio del vocabolario diceva qualcuno che mostra accondiscendenza cieca e servile. Allora decisi che io non volevo essere adultum, cioè adulto, cioè supino, che non volevo mostrare a nessuno accondiscendenza servile, cazzo. Io ero io e volevo restare io e non prendevo gli ordini dagli altri e poi mi incazzai perché è pazzesco che essere adulti significa essere ubbidienti e basta. Mai e poi mai, io volevo restare adolescens per sempre. Punto”, pp. 44-45.