La zia Tula

 
 
 
 

“Qualunque donna nasce madre” (p. 39). Qualunque donna tranne Gertrudis, la zia Tula protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Unamuno (Cencellada, 2023). È lei stessa, però, a pronunciare questa frase perentoria. E poche righe più avanti: “Dammelo, Rosa, dammelo”, riferito al figlio neonato di sua sorella, “e vai a intrattenere tuo marito…” (p. 41). Intrattenere in senso biblico, si capisce. Salvo poi preoccuparsi “di evitare al bambino, sin dalla più tenera età dell’innocenza, di riconoscere, nemmeno nei più lievi e remoti indizi, l’amore da cui era nato” (ibid.).
 
zia TulaBastano queste brevi citazioni a dimostrare l’efficacia con cui Unamuno descrive le contraddizioni di Gertrudis, personaggio esemplare per forza di volontà, rigore morale e invadenza. Ragazza, impone alla sorella Rosa di sposare Ramiro, un giovane che apparentemente corteggiava entrambe. Anni dopo, morta Rosa, rifiuta le ripetute avance del cognato e lo convince-costringe a sposare la domestica Manuela, dopo averne scoperto la gravidanza.
 
Il suo desiderio più intimo non sembra la maternità, quanto allevare figli altrui, e con totale abnegazione si occuperà della prole di sua sorella prima e di Manuela poi. Paradossalmente, la sua caparbietà nell’alleviare le fatiche di coloro che ama prosciugherà loro le energie, portandoli uno alla volta alla morte.
 
La sua figura si erge sulla famiglia al punto da mettere in ombra i figli che via via arrivano: prodotti meccanicamente, all’inizio del romanzo sono indistinguibili uno dall’altro. Conosciamo il nome del primo, Ramiro, come il padre, ma non quello della seconda e della terza figlia. Una nota della traduttrice Sara Papini chiarisce addirittura che, nei capitoli iniziali, Unamuno fa confusione con il sesso dell’ultima nata di Rosa.
 
In virtù delle proprie scelte, impopolari ai tempi della stesura del libro, Gertrudis è descritta in altre recensioni come una paladina della libertà e dell’emancipazione femminile. Sul principio, tale definizione appare un abbaglio: la sua libertà infatti non si ferma al confine di quelle altrui, anzi le travolge, per non dire che le fagocita.
 
Ma zia Tula, pagina dopo pagina, si arricchisce di sfumature. Finalmente arriva la consapevolezza dell’amore, dichiarato a Ramiro soltanto quando il cognato è in punto di morte. E insieme all’amore, Tula confessa la sua paura degli uomini.
 
Quindi è il ruolo della donna nella società e nella religione a essere messo in discussione. “Quando una donna non è rimedio, è animale domestico, e la maggior parte delle volte è entrambe le cose allo stesso tempo! Questi uomini… porcheria oppure pelandronite! E sostengono ancora che il cristianesimo abbia redento la nostra sorte, quella di noi donne! […] Il Cristianesimo, alla fin fine, e nonostante Maddalena, è una religione di uomini” (p. 116).
 
Con l’approssimarsi della morte, i dubbi coinvolgeranno la sua intera esistenza: “tutta la mia vita è stata una menzogna, uno sbaglio, un fallimento” (p. 129), ammetterà Gertrudis al suo confessore. La causa, ipotizzerà lei stessa, è forse dovuta a un’idea disumana della virtù. E qui sorge la questione centrale dell’opera: qual è il confine che divide il più generoso altruismo dal più cieco egoismo? Una dicotomia che attraversa il romanzo e che Unamuno evidenzia a parere di chi scrive reiterando l’uso di espressioni come “civiltà tirannica, tirannia civile” (p. 12), “occhi serenamente seri, seriamente sereni” (p. 49); “sguardi di angoscia riposata, di angosciato riposo” (p. 61); fino a quel “maternità virginale, verginità materna” (p. 122) che più di ogni altro ossimoro descrive il lato mistico di zia Tula.

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(Giovanni Locatelli)
 
 

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