recensione

Orso

 
 
 
 

“Lui seguitava a leccare. Le leccò i capezzoli fino a farli inturgidire e le sfregò l’ombelico. Con dei piccoli sospiri lasciò che scendesse più giù. Sollevò i fianchi per agevolargli il compito” (p. 84). Lui è un orso, lei una timida archivista di Toronto mandata su un’isoletta sperduta nel nord del Canada per catalogare la biblioteca privata del defunto Colonnello Cary.
 
orsoOrso di Marian Engel (La Nuova Frontiera, 2024, traduzione di Veronica Raimo), considerato un classico della narrativa erotica, racconta la passione di una donna nei confronti di un orso senza cadere nel ridicolo o nella trivialità, anzi rendendo la vicenda a suo modo quasi plausibile. Lo sviluppo di una passione così inusuale è descritto in tutti i passaggi: il primo incontro la sera dell’arrivo di Lou nella grande casa del Colonnello Cary; il primo contatto, quando l’orso lecca a Lou la mano; l’occasione in cui i due fanno i bisogni fianco a fianco, confidenza che a quanto pare suscita un vero piacere nella bestia; i quotidiani bagni nel fiume, non appena la stagione lo permette; l’ammissione dell’animale in casa, vinta la paura di condividere uno spazio confinato con un animale le cui dimensioni, al chiuso, appaiono ancora più imponenti; la scoperta del piacere di immergere le mani nella folta pelliccia; la caduta di timori e tabù e la conseguente conquista dell’intimità.
 
“Ora sapeva di amarlo. Lo amava in modo così esorbitante che il resto del mondo si era ridotto a un inutile groviglio senza senso, a parte il paesaggio, che esisteva al di là di loro: neutrale, con i suoi personali orgasmi estivi” (p. 106).
 
Difficile ridurre i due personaggi a schemi preconfezionati: la grigia archivista Lou, oltre a destreggiarsi in un ambiente selvaggio affrontato in completa solitudine, dà prova di una vita sessuale abbastanza disordinata: in città aveva rapporti settimanali con il Direttore della biblioteca, ma si scopre come avesse anche abbordato uno sconosciuto per strada. Prima ancora ebbe un amante descritto come elegante e fascinoso, sebbene poco passionale. La vediamo infine affascinare senza intenzione Homer, l’unico altro umano che compare nel romanzo, e copulare con lui per saziare il desiderio generato dall’orso . Niente a che vedere con lo stereotipo della zitella.
 
Parimenti, l’orso non è riconducibile a una particolare categoria: non rappresenta la natura selvaggia, in quanto vecchio e abituato alla catena che lo lega alla cuccia, ma non può nemmeno dirsi del tutto addomesticato. Pur non dimostrando alcuna aggressività, la sua mole, i denti e le unghie rappresentano un pericolo. E nonostante diventi l’oggetto del godimento di Lou, non pare essere attratto sessualmente dalla donna, se non per gli odori che il suo corpo emana e che la bestia annusa o lecca come farebbe con qualsiasi altra essenza o liquido. È questo il suo modo di entrare in contatto col mondo ha detto Lucy Leroy, nativa americana centenaria che già si prendeva cura dell’orso quando ancora il colonnello era in vita. Eppure quell’abitudine al corpo femminile appare sospetta: ci si immagina sia stata Lucy ad ammaestrarlo ai giochi erotici, oppure la stessa Colonnello Jocelyn Cary – ebbene sì, una donna, non un uomo.
 
Le due creature non paiono comprendersi fino in fondo, sembrano piuttosto accompagnarsi, e godersi la libertà dalla catena – materiale per l’orso, sociale per Lou – che ciascuna concede all’altra. Lei alla fine dell’estate tornerà in città, decisa a cambiare lavoro, forse vita. L’orso viene preso in carico da Joe King, nipote di Lucy. “Sarà felice di rivederlo” rivela Joe a Lou, parlando di Lucy. “Non si può negare che sia ossessionata da quell’orso. Dice che non ha nessuno con cui parlare. Spera che voi due siate diventati amici”. “Siamo andati a nuotare insieme” (p. 123) risponde Lou, sorniona.

 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

La zia Tula

 
 
 
 

“Qualunque donna nasce madre” (p. 39). Qualunque donna tranne Gertrudis, la zia Tula protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Unamuno (Cencellada, 2023). È lei stessa, però, a pronunciare questa frase perentoria. E poche righe più avanti: “Dammelo, Rosa, dammelo”, riferito al figlio neonato di sua sorella, “e vai a intrattenere tuo marito…” (p. 41). Intrattenere in senso biblico, si capisce. Salvo poi preoccuparsi “di evitare al bambino, sin dalla più tenera età dell’innocenza, di riconoscere, nemmeno nei più lievi e remoti indizi, l’amore da cui era nato” (ibid.).
 
zia TulaBastano queste brevi citazioni a dimostrare l’efficacia con cui Unamuno descrive le contraddizioni di Gertrudis, personaggio esemplare per forza di volontà, rigore morale e invadenza. Ragazza, impone alla sorella Rosa di sposare Ramiro, un giovane che apparentemente corteggiava entrambe. Anni dopo, morta Rosa, rifiuta le ripetute avance del cognato e lo convince-costringe a sposare la domestica Manuela, dopo averne scoperto la gravidanza.
 
Il suo desiderio più intimo non sembra la maternità, quanto allevare figli altrui, e con totale abnegazione si occuperà della prole di sua sorella prima e di Manuela poi. Paradossalmente, la sua caparbietà nell’alleviare le fatiche di coloro che ama prosciugherà loro le energie, portandoli uno alla volta alla morte.
 
La sua figura si erge sulla famiglia al punto da mettere in ombra i figli che via via arrivano: prodotti meccanicamente, all’inizio del romanzo sono indistinguibili uno dall’altro. Conosciamo il nome del primo, Ramiro, come il padre, ma non quello della seconda e della terza figlia. Una nota della traduttrice Sara Papini chiarisce addirittura che, nei capitoli iniziali, Unamuno fa confusione con il sesso dell’ultima nata di Rosa.
 
In virtù delle proprie scelte, impopolari ai tempi della stesura del libro, Gertrudis è descritta in altre recensioni come una paladina della libertà e dell’emancipazione femminile. Sul principio, tale definizione appare un abbaglio: la sua libertà infatti non si ferma al confine di quelle altrui, anzi le travolge, per non dire che le fagocita.
 
Ma zia Tula, pagina dopo pagina, si arricchisce di sfumature. Finalmente arriva la consapevolezza dell’amore, dichiarato a Ramiro soltanto quando il cognato è in punto di morte. E insieme all’amore, Tula confessa la sua paura degli uomini.
 
Quindi è il ruolo della donna nella società e nella religione a essere messo in discussione. “Quando una donna non è rimedio, è animale domestico, e la maggior parte delle volte è entrambe le cose allo stesso tempo! Questi uomini… porcheria oppure pelandronite! E sostengono ancora che il cristianesimo abbia redento la nostra sorte, quella di noi donne! […] Il Cristianesimo, alla fin fine, e nonostante Maddalena, è una religione di uomini” (p. 116).
 
Con l’approssimarsi della morte, i dubbi coinvolgeranno la sua intera esistenza: “tutta la mia vita è stata una menzogna, uno sbaglio, un fallimento” (p. 129), ammetterà Gertrudis al suo confessore. La causa, ipotizzerà lei stessa, è forse dovuta a un’idea disumana della virtù. E qui sorge la questione centrale dell’opera: qual è il confine che divide il più generoso altruismo dal più cieco egoismo? Una dicotomia che attraversa il romanzo e che Unamuno evidenzia a parere di chi scrive reiterando l’uso di espressioni come “civiltà tirannica, tirannia civile” (p. 12), “occhi serenamente seri, seriamente sereni” (p. 49); “sguardi di angoscia riposata, di angosciato riposo” (p. 61); fino a quel “maternità virginale, verginità materna” (p. 122) che più di ogni altro ossimoro descrive il lato mistico di zia Tula.

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(Giovanni Locatelli)
 
 

Vertigine

 
 
 
 

“Che cosa intende per vertigine?” “Quando ci si sporge su sé stessi, si scopre un abisso” (p. 212) dichiara Julien Green a proposito di Vertigine in una intervista citata nelle note conclusive redatte dai curatori Giuseppe Grimonti Greco e Ezio Sinigaglia all’edizione Nutrimenti del 2017. Tradotti da Lorenza Di Lella, Giuseppe Grimonti Greco, Francesca Scala, Ezio Sinigaglia e Filippo Tuena, la raccolta seleziona venti racconti scritti lungo un arco di tempo piuttosto ampio, dal 1920 al 1956, eppure coerenti nelle tematiche, spesso anche nella costruzione.
 
Attraverso atmosfere misteriose, oniriche o fantastiche, mai smaccatamente horror, di volta in volta viene messo in scena un rapporto di forza squilibrato: adulto e bambino, donna sola e giovane sfrontato – pochi racconti hanno più di due personaggi e in quel caso si tratta di semplici comparse – oppure folla inferocita e vittima impossibilitata a fuggire. Spesso, il rapporto fra i due soggetti ha valenze sessuali ambigue. La narrazione si interrompe prima che il predominio si trasformi in sopruso, eppure è palpabile che i protagonisti ne provino il timore o il desiderio e ciò suscita in loro vertigine. A scoprire l’abisso dentro di sé può essere la vittima così come il carnefice, oppure entrambi; il lettore, persino.
 
Nella poetica dell’autore, il lettore ha infatti un compito preciso. Scriveva Green nella prefazione alla prima edizione – ed è riportato nelle note– che nel racconto, a differenza del romanzo, l’autore si ferma “quando gli sembra che tutto sia stato detto. È allora che comincia il sogno” (p. 204): spetta al lettore sognare il non detto.
 
Esemplare delle caratteristiche fin qui descritte è Il dormiente: un padrone di casa che regna incontrastato sulla servitù e un giovane domestico bellissimo. Quando il primo chiama a gran voce il secondo, questi è a letto. Si alza e comincia a vestirsi, poi, non sentendo ulteriori richiami, se ne torna sotto le coperte: subito è preso da un vago senso di stordimento e si riaddormenta per sognare il padrone che sale le scale con la sua frusta per cani sottobraccio. Il contrasto fra quella che ci aspetteremmo essere una normale reazione alla minaccia delle frustate e il placido sonno del protagonista potrebbe generare perplessità nel lettore. L’abilità dell’autore risiede nella capacità di suscitarne il turbamento: ecco che si è spalancata la voragine.
 
In Una vita qualunque, viene presentata un’ulteriore possibilità connessa al sogno: “Si può riaggiustare la vita nei sogni? Quella notte Ariane sognò di essere felice” (p. 93). Nel racconto, la protagonista cerca di ribaltare i rapporti di forza della società in cui vive, ma lo fa a proprio discapito. “Una volta di più aveva provato la misteriosa soddisfazione di umiliare il sesso forte” (p. 95) pensa Ariane ritornando al giorno in cui aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un pretendente per poi rimanere sola per anni e ritrovarsi ad attendere le visite di un ragazzino insolente. E forse, proprio per questo suo goffo tentativo di ribellarsi, Green concede alla donna una seconda occasione. “Resto o me ne vado?” (p. 97) le chiede il ragazzino dopo una lunga assenza che le ha straziato il cuore, sapendo che lei è di nuovo sul punto di cacciarlo. “Ariane si lasciò scivolare nella poltrona. ‘Restate’, bisbigliò. ‘Oh, restate’” (ibid.)
 
Sarebbe stato semplice terminare il racconto senza quest’ultima risposta di Ariane, inchiodandola nella sua poltrona e lasciando il lettore in sospeso come accade in tutti gli altri lavori della raccolta. Se è vero quanto riportato nelle note conclusive, “Nell’insieme il personaggio di Ariane rende lecito dubitare che l’atteggiamento di Green nei confronti delle donne sole che popolano i suoi racconti sia compassionevole” (p. 215), chi scrive ritiene altresì che a questa signorina antipatica, ma che ha cercato di vivere secondo regole proprie, Green conceda una parola finalmente sincera, dettata dal bisogno di affetto anziché dall’orgoglio.

 
 
(Giovanni Locatelli)
 
 

I libri di Jakub

 
 
 
 

Con l’approssimarsi del 1666, anno che ai cattolici ricordava il numero della Bestia, ma che anche per i cabalisti ebrei era foriero di cambiamenti, un grande fermento scosse le comunità giudaiche dell’Europa e della Turchia: Sabbatai Zevi, mistico ebreo ottomano, si autoproclamò messia e promise di unificare le dieci tribù di Israele per riportarle in Terra Santa. La missione politico-religiosa si concluse in maniera disastrosa: Sabbatai Zevi fu costretto dal Sultano a convertirsi all’Islam, mentre le autorità rabbiniche ortodosse scagliarono una condanna di eresia contro i seguaci del movimento. Eppure, ancora nella prima metà del secolo successivo si sentivano gli influssi di questo terremoto, al punto che un nuovo sedicente messia riuscì a fondare una setta e radunare seguaci: Jakub Frank.
 
I libri di JakubOlga Tokarczuk ne I libri di Jakub (Bompiani, 2023, traduzione di Ludmila Ryba e Barbara Delfino) racconta la storia di Frank e quella del suo popolo in un romanzo di più di un migliaio di pagine numerate al contrario, tributo alla modalità di scrittura ebraica ed escamotage usato per dimostrarci che ogni ordine è frutto di arbitrio, come dichiara l’autrice stessa nella postfazione.
 
Nel 1752, anno da cui prendono spunto le vicende, la Polonia è lo stato più vasto d’Europa, tanto da confinare a sud con la Turchia. Come dicevamo, all’interno della sua comunità ebraica è ancora vivo il trauma o, per qualcuno, la speranza dell’eresia sabbatiana. Esclusi per natura dalle società in cui vivono, cattolica in Polonia e musulmana in Turchia, i seguaci di Zevi, che si riferiscono a sé stessi chiamandosi i veri credenti, rappresentano una minoranza nella minoranza: “Noi siamo gli stranieri degli stranieri, gli ebrei degli ebrei. E abbiamo sempre nostalgia di casa” (p. 557).
 
In questi stessi anni, ancora si celebrano processi in Polonia contro gli ebrei: accuse quali l’omicidio di infanti per prelevarne il sangue da usare nell’impasto del pane azzimo per Pesach, la Pasqua ebraica, non sono infrequenti, e i processi spesso portano alla condanna a morte degli imputati.
 
L’attesa di un cambiamento è tale che alcuni rabbini cabalisti identificano in un giovane carismatico, Yenkel Lejbowicz, di origine polacca, ma residente da anni in Turchia, caratteristiche tali da riconoscerlo quale reincarnazione di Sabbatai Zevi. “Un profeta deve essere in certo qual modo straniero. Deve venire da una terra straniera, comparire di punto in bianco, apparire strano, straordinario. Deve essere avvolto da un mistero, come, per dirne uno, quello dei goyim, della nascita da una vergine. Un profeta deve parlare diversamente, camminare diversamente” (p. 979-8).
 
Yenkel cambia nome in Jakub Frank e si immedesima nella parte: è prestante, persino bello, vestito alla turca, pare non conoscere il sentimento della paura. Altrove si dice che la sua principale caratteristica sia l’irragionevolezza, ma anche, poche pagine prima, l’autenticità. Sicuramente è abile nel raccontare storie e parabole e nell’inventare riti, alcuni dei quali, come il bacio dei capezzoli di una giovane donna appartenente alla comunità, legati al principio della purificazione attraverso la trasgressione.
 
Nel rifiuto delle leggi di Mosè, ritenute arbitrarie, e nella definizione di una trinità simile a quella cristiana, ma non coincidente con essa, si basa la dottrina della setta. Il primo punto porterà alla libertà sessuale e all’incesto, al consumo di carne non kosher e di pane lievitato anche nei giorni di Pesach. Il secondo rappresenterà per la setta il lasciapassare verso il cristianesimo, al quale quasi tutti aderiranno col battesimo e con l’assunzione di nomi polacchi.
 
Se da un lato questo cambio di nome complica non poco la vita al lettore che dopo circa seicento pagine si trova completamente disorientato, dall’altro rispecchia lo spaesamento dei protagonisti stessi, i quali, di fronte ai primi riti cattolici celebrati all’interno della comunità “affrontano qualcosa di estraneo e per ora spiacevole, qualcosa che succede per la prima volta, ma si sa già che d’ora in poi si ripeterà in futuro. È come se fossero seduti attorno a un grande vuoto e lo mangiassero a cucchiaiate” (p. 353). (altro…)

Le cugine

 
 
 
 

Romanzo di formazione e di deformazioni fisiche e psicologiche, Le Cugine di Aurora Venturini (Sur, 2022, traduzione e postfazione di Francesca Lazzarato) è un monologo in cui Yuna, la protagonista, descrive la sua famiglia disfunzionale, un coacervo di orrori, tare genetiche, difficoltà cognitive, povertà economica, ignoranza o comunque mentalità retrograda, crudeltà gratuite e colpe non espiate in quantità.
 
Quattro sono le cugine del romanzo: Yuna e Betina, figlie di “una maestra di quelle con la bacchetta” (p. 15) e Petra e Carina, figlie di zia Ingrazia, mentre zia Nené non ha figli.
 
Le cugineBetina, deforme e ritardata, è la vergogna della famiglia. Reclusa in casa, a lei nessuno bada “perché rappresentava il massimo della miseria e dell’orrore della nostra gens stremata e degenerata per colpa del malocchio o di una malattia che si eredita” (p.138).
 
Carina muore presto, a causa di un aborto clandestino imposto da zia Nené per rimediare a un rapporto sessuale consumato col vicino di casa. “Mi accorsi che Carina piangeva senza lacrime e si accarezzava la pancia passandoci sopra i ditini quando zia Nené disse porcheria e mi resi conto che Carina amava il bambino che portava dentro e mi venne la pelle d’oca” (p. 46).
 
Petra e Yuna, sconvolte dall’accaduto, adottano strategie opposte per sopravvivere: Petra, che del sesso ha compreso i meccanismi e i pericoli prima delle altre, si guadagna da vivere prostituendosi. “Petra raccontò che non c’era motivo di rinunciare a nulla e che usando il preservativo andava tutto liscio ma purché fosse sistemato bene altrimenti poteva rompersi e allora… Chiesi dove bisognava mettere il preservativo, nella borsa, in tasca o… Petra aprì la boccaccia da ippopotamo e mi disse dove e come” (p. 50).
 
Yuna viceversa, bellissima e talentuosa nonostante il ritardo cognitivo, dedica tutte le sue energie alla pittura e si mantiene illibata evitando qualsiasi contatto con gli uomini.
 
Uomini farabutti capaci di qualunque bassezza, affamati di sesso al punto da non fermarsi di fronte a menomazioni e minorazioni. Persino Betina, sebbene non riesca nemmeno a controllare intestino e vescica, subirà degli abusi sessuali a seguito dei quali rimarrà incinta.
 
Come fa notare nella prefazione al romanzo Mariana Enriquez, nonostante queste premesse, non è la rabbia il sentimento principale della protagonista, quanto il disagio e il disgusto nei confronti della sorella, della madre, del professore della scuola d’arte, persino di Petra che, pur di cancellare il proprio passato di prostituta e trovare finalmente marito, sarà disposta a calunniare Yuna, accusandola di frequentare artisti, capelloni e altre persone immorali. (altro…)