Giuseppe Rimonti Greco

Vertigine

 
 
 
 

“Che cosa intende per vertigine?” “Quando ci si sporge su sé stessi, si scopre un abisso” (p. 212) dichiara Julien Green a proposito di Vertigine in una intervista citata nelle note conclusive redatte dai curatori Giuseppe Grimonti Greco e Ezio Sinigaglia all’edizione Nutrimenti del 2017. Tradotti da Lorenza Di Lella, Giuseppe Grimonti Greco, Francesca Scala, Ezio Sinigaglia e Filippo Tuena, la raccolta seleziona venti racconti scritti lungo un arco di tempo piuttosto ampio, dal 1920 al 1956, eppure coerenti nelle tematiche, spesso anche nella costruzione.
 
Attraverso atmosfere misteriose, oniriche o fantastiche, mai smaccatamente horror, di volta in volta viene messo in scena un rapporto di forza squilibrato: adulto e bambino, donna sola e giovane sfrontato – pochi racconti hanno più di due personaggi e in quel caso si tratta di semplici comparse – oppure folla inferocita e vittima impossibilitata a fuggire. Spesso, il rapporto fra i due soggetti ha valenze sessuali ambigue. La narrazione si interrompe prima che il predominio si trasformi in sopruso, eppure è palpabile che i protagonisti ne provino il timore o il desiderio e ciò suscita in loro vertigine. A scoprire l’abisso dentro di sé può essere la vittima così come il carnefice, oppure entrambi; il lettore, persino.
 
Nella poetica dell’autore, il lettore ha infatti un compito preciso. Scriveva Green nella prefazione alla prima edizione – ed è riportato nelle note– che nel racconto, a differenza del romanzo, l’autore si ferma “quando gli sembra che tutto sia stato detto. È allora che comincia il sogno” (p. 204): spetta al lettore sognare il non detto.
 
Esemplare delle caratteristiche fin qui descritte è Il dormiente: un padrone di casa che regna incontrastato sulla servitù e un giovane domestico bellissimo. Quando il primo chiama a gran voce il secondo, questi è a letto. Si alza e comincia a vestirsi, poi, non sentendo ulteriori richiami, se ne torna sotto le coperte: subito è preso da un vago senso di stordimento e si riaddormenta per sognare il padrone che sale le scale con la sua frusta per cani sottobraccio. Il contrasto fra quella che ci aspetteremmo essere una normale reazione alla minaccia delle frustate e il placido sonno del protagonista potrebbe generare perplessità nel lettore. L’abilità dell’autore risiede nella capacità di suscitarne il turbamento: ecco che si è spalancata la voragine.
 
In Una vita qualunque, viene presentata un’ulteriore possibilità connessa al sogno: “Si può riaggiustare la vita nei sogni? Quella notte Ariane sognò di essere felice” (p. 93). Nel racconto, la protagonista cerca di ribaltare i rapporti di forza della società in cui vive, ma lo fa a proprio discapito. “Una volta di più aveva provato la misteriosa soddisfazione di umiliare il sesso forte” (p. 95) pensa Ariane ritornando al giorno in cui aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un pretendente per poi rimanere sola per anni e ritrovarsi ad attendere le visite di un ragazzino insolente. E forse, proprio per questo suo goffo tentativo di ribellarsi, Green concede alla donna una seconda occasione. “Resto o me ne vado?” (p. 97) le chiede il ragazzino dopo una lunga assenza che le ha straziato il cuore, sapendo che lei è di nuovo sul punto di cacciarlo. “Ariane si lasciò scivolare nella poltrona. ‘Restate’, bisbigliò. ‘Oh, restate’” (ibid.)
 
Sarebbe stato semplice terminare il racconto senza quest’ultima risposta di Ariane, inchiodandola nella sua poltrona e lasciando il lettore in sospeso come accade in tutti gli altri lavori della raccolta. Se è vero quanto riportato nelle note conclusive, “Nell’insieme il personaggio di Ariane rende lecito dubitare che l’atteggiamento di Green nei confronti delle donne sole che popolano i suoi racconti sia compassionevole” (p. 215), chi scrive ritiene altresì che a questa signorina antipatica, ma che ha cercato di vivere secondo regole proprie, Green conceda una parola finalmente sincera, dettata dal bisogno di affetto anziché dall’orgoglio.

 
 
(Giovanni Locatelli)