I libri di Jakub

I libri di Jakub

 
 
 
 

Con l’approssimarsi del 1666, anno che ai cattolici ricordava il numero della Bestia, ma che anche per i cabalisti ebrei era foriero di cambiamenti, un grande fermento scosse le comunità giudaiche dell’Europa e della Turchia: Sabbatai Zevi, mistico ebreo ottomano, si autoproclamò messia e promise di unificare le dieci tribù di Israele per riportarle in Terra Santa. La missione politico-religiosa si concluse in maniera disastrosa: Sabbatai Zevi fu costretto dal Sultano a convertirsi all’Islam, mentre le autorità rabbiniche ortodosse scagliarono una condanna di eresia contro i seguaci del movimento. Eppure, ancora nella prima metà del secolo successivo si sentivano gli influssi di questo terremoto, al punto che un nuovo sedicente messia riuscì a fondare una setta e radunare seguaci: Jakub Frank.
 
I libri di JakubOlga Tokarczuk ne I libri di Jakub (Bompiani, 2023, traduzione di Ludmila Ryba e Barbara Delfino) racconta la storia di Frank e quella del suo popolo in un romanzo di più di un migliaio di pagine numerate al contrario, tributo alla modalità di scrittura ebraica ed escamotage usato per dimostrarci che ogni ordine è frutto di arbitrio, come dichiara l’autrice stessa nella postfazione.
 
Nel 1752, anno da cui prendono spunto le vicende, la Polonia è lo stato più vasto d’Europa, tanto da confinare a sud con la Turchia. Come dicevamo, all’interno della sua comunità ebraica è ancora vivo il trauma o, per qualcuno, la speranza dell’eresia sabbatiana. Esclusi per natura dalle società in cui vivono, cattolica in Polonia e musulmana in Turchia, i seguaci di Zevi, che si riferiscono a sé stessi chiamandosi i veri credenti, rappresentano una minoranza nella minoranza: “Noi siamo gli stranieri degli stranieri, gli ebrei degli ebrei. E abbiamo sempre nostalgia di casa” (p. 557).
 
In questi stessi anni, ancora si celebrano processi in Polonia contro gli ebrei: accuse quali l’omicidio di infanti per prelevarne il sangue da usare nell’impasto del pane azzimo per Pesach, la Pasqua ebraica, non sono infrequenti, e i processi spesso portano alla condanna a morte degli imputati.
 
L’attesa di un cambiamento è tale che alcuni rabbini cabalisti identificano in un giovane carismatico, Yenkel Lejbowicz, di origine polacca, ma residente da anni in Turchia, caratteristiche tali da riconoscerlo quale reincarnazione di Sabbatai Zevi. “Un profeta deve essere in certo qual modo straniero. Deve venire da una terra straniera, comparire di punto in bianco, apparire strano, straordinario. Deve essere avvolto da un mistero, come, per dirne uno, quello dei goyim, della nascita da una vergine. Un profeta deve parlare diversamente, camminare diversamente” (p. 979-8).
 
Yenkel cambia nome in Jakub Frank e si immedesima nella parte: è prestante, persino bello, vestito alla turca, pare non conoscere il sentimento della paura. Altrove si dice che la sua principale caratteristica sia l’irragionevolezza, ma anche, poche pagine prima, l’autenticità. Sicuramente è abile nel raccontare storie e parabole e nell’inventare riti, alcuni dei quali, come il bacio dei capezzoli di una giovane donna appartenente alla comunità, legati al principio della purificazione attraverso la trasgressione.
 
Nel rifiuto delle leggi di Mosè, ritenute arbitrarie, e nella definizione di una trinità simile a quella cristiana, ma non coincidente con essa, si basa la dottrina della setta. Il primo punto porterà alla libertà sessuale e all’incesto, al consumo di carne non kosher e di pane lievitato anche nei giorni di Pesach. Il secondo rappresenterà per la setta il lasciapassare verso il cristianesimo, al quale quasi tutti aderiranno col battesimo e con l’assunzione di nomi polacchi.
 
Se da un lato questo cambio di nome complica non poco la vita al lettore che dopo circa seicento pagine si trova completamente disorientato, dall’altro rispecchia lo spaesamento dei protagonisti stessi, i quali, di fronte ai primi riti cattolici celebrati all’interno della comunità “affrontano qualcosa di estraneo e per ora spiacevole, qualcosa che succede per la prima volta, ma si sa già che d’ora in poi si ripeterà in futuro. È come se fossero seduti attorno a un grande vuoto e lo mangiassero a cucchiaiate” (p. 353). (altro…)