L’estate breve

L’estate breve

 
 
 
 

L’estate come metafora della giovinezza, perché entrambe sono il “periodo più importante, quello in cui capitano le faccende essenziali” (p. 40), o che tali ci appaiono alla luce di quei lunghi giorni capaci di donarci l’illusione che persino l’infinito possa essere alla nostra portata.

Se ci limitassimo ai primi due terzi del libro, potrebbe essere questa una incompleta chiave di lettura de L’estate breve di Enrico Macioci, in uscita il 21 marzo per TerraRossa Edizioni, parziale riscrittura di Breve storia del talento (Mondadori, 2015). Amicizia, rivalità e passioni di un gruppo di ragazzini e ragazzine alle prese col delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza, in un condominio di provincia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.

L'estate breve

Tra le pagine, nel racconto in prima persona che è anzitutto dialogo con sé, tentativo di comprendere e di comprendersi, seguiamo il protagonista mentre le sue ambizioni calcistiche si infrangono contro il cristallino talento di Michele, nuovo arrivato nel condominio Prato Verde e suo futuro migliore amico: quasi un Glenn Gould del pallone, giunto a prendersi la scena sul campetto del quartiere per lasciare agli altri, a lui su tutti, il ruolo di ammirati comprimari.

E a una analoga parabola assistiamo, man mano che l’iniziale indifferenza nei confronti di Miriam, da sempre compagna di giochi, diviene attrazione e forse amore inconfessato, destinato a restare deluso, nel modo confuso e totale in cui ci si innamora e si resta delusi a quattordici anni.

Nel tempo dell’infanzia, preludio alla vita vera, in questa “introduzione a qualcosa di assai nebuloso e diverso” (p. 21), ci si può permettere di ridere per l’umiliazione del prossimo “in modo sguaiato, scambiandoci pacche d’intesa, piegati sulle ginocchia e tenendoci la pancia, appoggiandoci alle spalle o alla schiena del vicino” (p.33), perché “Eravamo tristemente, selvaggiamente felici: sperimentavamo con ingordigia il lato giusto dell’esclusione” (ibid.). Finché non arriva il proprio turno e ci si ritrova sul lato sbagliato, a subire la mortificazione del tradimento, la frustrazione per il desiderio inappagato, l’impotenza nella scoperta dei propri limiti al cospetto del mondo. A vivere la vergogna anche per gli istinti più naturali e quindi più puri: “Le due faccende — la masturbazione e la scrittura, specie delle poesie — mi sembravano connesse, in parte persino coincidenti. Entrambe causavano vergogna, entrambe richiedevano isolamento, entrambe si nutrivano di fantasia” (p. 78). Ma alla vergona, a questo pudore doloroso e scostante, e al conseguente tentativo di nascondersi, si accompagna il sotterraneo desiderio di venire scoperti, forse nell’ingenua speranza che, rimosso l’ultimo velo, rimanga da fronteggiare solo la libertà.

Lo si è dichiarato all’inizio, questa sarebbe una chiave di lettura incompleta. Perché nel romanzo di Macioci lo sguardo si sdoppia, proprio come sembra accadere al protagonista di cui non conosciamo il nome. Da una parte, il ragazzo che guarda al mistero del futuro costellato di incognite e di speranze; dall’altra, l’uomo che deve fare i conti con l’esito di quelle speranze e si volge al passato, non meno smarrito e carico di interrogativi. E forse, grazie alla plasmabile geometria della finzione letteraria, le risposte alle domande dell’uno e dell’altro si trovano proprio nel punto in cui i loro sguardi si incontrano: “Accettare potrebbe essere il segreto […] Accettare di essere chi sono, e provare a diventare la migliore versione possibile di me stesso […] Attesa e non pretesa. La differenza tra brama e desiderio, ossessione e passione, successo e realizzazione” (p. 104).

 
 
(Gianni Usai)