TerraRossa

Uno su infinito

 
 
 
 

Nella premessa-cornice del libro, il medico di medicina generale Tancredi dice di aver ricevuto, due o tre anni prima, un testo speditogli da un giovane sceneggiatore. Conteneva la sbobinatura di alcune interviste che riguardavano la storia di un curiosissimo programma televisivo, That’s (im)possible.

Il titolo del programma corrisponde a quello con cui il lungo racconto di Cristò è uscito prima per caratterimobili e poi per Intermezzi, dopo di che è stato dato alle stampe da TerraRossa (2021) con il più eloquente titolo Uno su infinito (racconto orale). Perché, se la parentesi conferma che le ottanta pagine del volume sono composte unicamente da stralci di interviste pervenute a Tancredi, Uno su infinito si riferisce alla bizzarra lotteria che in breve tempo ha portato il programma di un’emittente locale italiana al successo planetario.

Uno su infinitoNel concorso settimanale ideato da Bruno Marinetti, i partecipanti devono indovinare un numero qualsiasi. Qualsiasi, appunto: da zero a infinito.

L’illogica regola su cui si basa la lotteria non è sufficiente ad arginare un entusiasmo sempre più ampio. Dice Tony Morisco, venditore di auto usate: “Costava così poco giocare e si poteva vincere così tanto che alla fine non me ne fregava niente di ciò che dicevano: che era truccato” (p. 14).

Palmare, nello spunto che innerva la narrazione, il riferimento alle suggestioni di massa, oggi più che mai frequenti e rapide a dilagare tramite le piattaforme social, per cui ci si trova ad aderire e condividere (a colpi di clic) non per intima convinzione, ma per fiducia prerazionale e terrore della solitudine.

Tuttavia l’aspetto sociologico di Uno su infinito è sommosso dalle dichiarazioni di Martinetti, e dai motivi che lo hanno indotto a dare vita all’assurdo gioco. Motivi che hanno a che fare con le figure del padre Enrico e della sorella Sofia. Il primo è stato un sindacalista morto nell’indifferenza generale ma venerato dal figlio: “Non se lo ricorda quasi più nessuno ma mio padre è stato un grande uomo” (p. 24); la seconda, una ragazza debilitata da una malattia che l’ha resa catatonica, sarà l’involontaria ispiratrice della lotteria ideata da Bruno.

Il quale, in un corto circuito generato dal doppio debito morale verso l’uno e l’altra, sogna anche lui – come il padre – la rivoluzione, che avrebbe addirittura attuato egli stesso, intervenendo in modo illecito nel gioco.

Nel finale di Uno su infinito, poi, si insinua l’elemento del soprannaturale, com’era capitato con La carne, altra opera di Cristò da noi recensita (con cui svariati sono i punti di tangenza, a partire dal personaggio di Tancredi).

Inserire nella vicenda accadimenti che superano la logica usuale potrebbe avere la funzione di segnare l’incolmabilità della distanza tra la verità e l’esistenza degli umani, che consumano le proprie giornate nell’illusione di un gesto automatico capace di fare il destino amico, di recuperare il senso perduto. In questa ambizione non c’è differenza tra i giocatori della lotteria e il suo inventore: gli uni e l’altro hanno vissuto vagheggiando l’impossibile.

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

L’estate breve

 
 
 
 

L’estate come metafora della giovinezza, perché entrambe sono il “periodo più importante, quello in cui capitano le faccende essenziali” (p. 40), o che tali ci appaiono alla luce di quei lunghi giorni capaci di donarci l’illusione che persino l’infinito possa essere alla nostra portata.

Se ci limitassimo ai primi due terzi del libro, potrebbe essere questa una incompleta chiave di lettura de L’estate breve di Enrico Macioci, in uscita il 21 marzo per TerraRossa Edizioni, parziale riscrittura di Breve storia del talento (Mondadori, 2015). Amicizia, rivalità e passioni di un gruppo di ragazzini e ragazzine alle prese col delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza, in un condominio di provincia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.

L'estate breve

Tra le pagine, nel racconto in prima persona che è anzitutto dialogo con sé, tentativo di comprendere e di comprendersi, seguiamo il protagonista mentre le sue ambizioni calcistiche si infrangono contro il cristallino talento di Michele, nuovo arrivato nel condominio Prato Verde e suo futuro migliore amico: quasi un Glenn Gould del pallone, giunto a prendersi la scena sul campetto del quartiere per lasciare agli altri, a lui su tutti, il ruolo di ammirati comprimari.

E a una analoga parabola assistiamo, man mano che l’iniziale indifferenza nei confronti di Miriam, da sempre compagna di giochi, diviene attrazione e forse amore inconfessato, destinato a restare deluso, nel modo confuso e totale in cui ci si innamora e si resta delusi a quattordici anni.

Nel tempo dell’infanzia, preludio alla vita vera, in questa “introduzione a qualcosa di assai nebuloso e diverso” (p. 21), ci si può permettere di ridere per l’umiliazione del prossimo “in modo sguaiato, scambiandoci pacche d’intesa, piegati sulle ginocchia e tenendoci la pancia, appoggiandoci alle spalle o alla schiena del vicino” (p.33), perché “Eravamo tristemente, selvaggiamente felici: sperimentavamo con ingordigia il lato giusto dell’esclusione” (ibid.). Finché non arriva il proprio turno e ci si ritrova sul lato sbagliato, a subire la mortificazione del tradimento, la frustrazione per il desiderio inappagato, l’impotenza nella scoperta dei propri limiti al cospetto del mondo. A vivere la vergogna anche per gli istinti più naturali e quindi più puri: “Le due faccende — la masturbazione e la scrittura, specie delle poesie — mi sembravano connesse, in parte persino coincidenti. Entrambe causavano vergogna, entrambe richiedevano isolamento, entrambe si nutrivano di fantasia” (p. 78). Ma alla vergona, a questo pudore doloroso e scostante, e al conseguente tentativo di nascondersi, si accompagna il sotterraneo desiderio di venire scoperti, forse nell’ingenua speranza che, rimosso l’ultimo velo, rimanga da fronteggiare solo la libertà.

Lo si è dichiarato all’inizio, questa sarebbe una chiave di lettura incompleta. Perché nel romanzo di Macioci lo sguardo si sdoppia, proprio come sembra accadere al protagonista di cui non conosciamo il nome. Da una parte, il ragazzo che guarda al mistero del futuro costellato di incognite e di speranze; dall’altra, l’uomo che deve fare i conti con l’esito di quelle speranze e si volge al passato, non meno smarrito e carico di interrogativi. E forse, grazie alla plasmabile geometria della finzione letteraria, le risposte alle domande dell’uno e dell’altro si trovano proprio nel punto in cui i loro sguardi si incontrano: “Accettare potrebbe essere il segreto […] Accettare di essere chi sono, e provare a diventare la migliore versione possibile di me stesso […] Attesa e non pretesa. La differenza tra brama e desiderio, ossessione e passione, successo e realizzazione” (p. 104).

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Temevo dicessi l’amore

 

 

I racconti di Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo (TerraRossa Edizioni, 2023) hanno un centro gravitazionale: Ofelia. Non riusciamo a ricostruirne il volto, gli accadimenti della vita in sequenza lineare. Poco importa. Sappiamo solo che la protagonista è un personaggio lunare che spiazza gli interlocutori con le sue osservazioni eccentriche, spesso al limite del surreale. Ofelia che parla con i cani e con i loro fantasmi, con esseri umani vivi e morti, costruisce cavalli di legno per le giostre, spara al tiro a segno e va sulle montagne russe al lunapark, ama donne e uomini con la stessa profondità, anche se per un periodo della sua vita è stata un angelo.

Temevo dicessi l'amoreNon c’è una vera trama nella raccolta. Sappiamo che Ofelia è madre, sorella, figlia e amante nelle epoche della narrazione – infanzia, giovinezza universitaria, maturità. Quello che importa sono le relazioni che ha intessuto di volta in volta e che continuano a rincorrersi, sovrapporsi. Relazioni delineate con grande sensibilità nei loro meccanismi di attrazione e repulsione, sincronia e disaccordo, detto e non detto. Narrate a più voci, quanti i personaggi.

Ma a Mattia Grigolo non interessa la polifonia, la distinzione stilistica dei vari frammenti, né l’evoluzione della protagonista fra un blocco narrativo e l’altro. Tutto appare immobile, rarefatto. Un album fotografico dedicato a un solo soggetto inesauribile da ritrarre utilizzando lo sfuocato, il mosso, per vivificare le mille espressioni. Ciò conferisce al libro il carattere di una costruzione lirica: una raccolta di poesie in cui, direttamente o indirettamente, è l’io della protagonista a parlare. A svelare o nascondere i propri sentimenti. A portarci in profondità grazie alla giustapposizione di attimi distanti nel tempo, situazioni indefinite, emozioni fugaci.

L’elemento unificante dell’opera è l’uso sapiente dei dialoghi. Si ha la sensazione di ascoltare frammenti di un’unica conversazione. Ogni battuta spiazza e tiene in bilico il lettore, suggerisce un’interpretazione o la sospende, spinge alla ricerca di un senso ulteriore al di là delle singole situazioni, come in un libro sapienziale.

Fra i tanti esempi:
«Parli ancora con tuo padre?» (…)
«A volte.»
«Cosa ti manca di lui?»
«Il nostro cane.»
«Parlami della tua solitudine» (pp. 79-80)

«Sai dove mi ha portata?» (…)
«In un cantiere.»
«Un cantiere qualsiasi?»

«Il cantiere che c’è ora dove prima c’era la sua casa d’infanzia.»
«Che cosa commovente.»
«Gli ho chiesto di portarmi in un posto dove non avrei dovuto pensare.»
«E invece ti ha portato nel posto dove lui non può fare a meno di pensare.»
«I suoi pensieri che sotterrano i miei.» (p. 84)

O ancora:
«Signora, non c’è nessuna casa qui.»
Uno di loro si butta dentro l’abitacolo e abbassa il volume dell’autoradio.
«La casa è proprio qui, dove avete parcheggiato la vostra macchina. Non si può parcheggiare in un salotto.» (p. 131)

La conseguenza fondamentale è che in questo paesaggio narrativo diafano ogni elemento assume una grande forza evocativa, magica. Gli animali e gli oggetti disseminati nel testo – pappagalli, cavalli, cani, gatti randagi da adottare, fenicotteri, coyote, volpi – riflettono aspetti taciuti, sotterranei, delle relazioni fra i personaggi, di cui vediamo solo la parte esteriore nei dialoghi e nei gesti compiuti. Persino i capelli rasati di una cameriera diventano lo spettro di un legame: “Entrati nel bar sentimmo odore di bruciato. Chiedemmo di lui alla ragazza con lo straccio in mano. Portava i capelli rasati e, di tanto in tanto, passava una mano sulla testa, come se ne sentisse la mancanza” (p. 99).

Tutti cercano Ofelia, e viceversa. Il suo passato e il suo presente si rincorrono – nell’ultimo racconto, Una cosa da streghe, il buco sul pavimento del bagno in ristrutturazione di una donna anziana sembra un varco temporale per riannodare una relazione perduta. Lo stesso fanno i vivi e i morti intorno a lei – in Eravamo, Ofelia frequenta una associazione di aspiranti suicidi e conversa con i fantasmi di suo padre e del suo cane (“Suo padre sgancia una lattina di Pepsi e ci attacca le labbra. Ingolla rumorosamente. Ofelia si domande se, nella realtà, la stia bevendo lei. Si fa un appunto mentale: ricordati di controllare se domani trovi la lattina aperta”, p. 81).

Ogni personaggio tenta di chiudere il cerchio della sua vita affettiva ma non ci riesce. Lo stesso titolo riflette tale irresolutezza, così vicina a quella della vita reale. A lettura ultimata si ha infatti la sensazione di aver attraversato decine di esistenze, familiari e allo stesso tempo aliene grazie alla parabola eccentrica di Ofelia, forse anch’essa simbolo dell’evanescenza – affettiva, geografica e sociale – delle relazioni umane.

 

 

Agostino Bimbo