letture

Gente alla buona

 
 
 
 

Quanti segreti nasconde la Gente alla buona di Mattia Grigolo (Fandango, 2024)? Quali colpe devono spartirsi ed espiare gli abitanti di un piccolo paese della Bassa padana, che negli anni Sessanta contava trecento anime e oggi se ne ritrova dieci volte tante? Eppure, niente è cambiato, il paese è ancora “Come un orecchio che da qualche parte ascolta quello che gli sta dicendo una bocca. E questo orecchio qui non c’ha una testa a cui è attaccato e quella bocca non ha una voce sola: è la bocca di tutti” (p. 84).

Il paese che ti possiede e non ti lascia andare, con “i suoi codici, la sua forma, l’amalgama di tutti quando tutti sono uno solo, anche chi non c’è, chi non c’entra, chi sta dormendo, chi è lontano, chi è già morto e chi deve ancora nascere” (p. 93). E così quelle colpe sembrano propagarsi dai genitori ai figli e dai figli ai genitori, nelle cinque decadi racchiuse nel romanzo e ripercorse seguendo una linea temporale che, tra passi in avanti e balzi verso il passato, si avviluppa attorno ai luoghi e alle anime che a essi appartengono.

Gente alla buonaSara, Brando, Larcher e Michele hanno tredici anni nel Natale del 1996, funestato da due morti che sconvolgono la comunità e sollevano sospetti. Alla loro età i gravami e i crucci della condizione umana li raggiungono solo di riflesso, quando gli adulti non sono capaci di proteggerne l’innocenza tenendoli per sé. Non possono immaginare che gli eventi di quelle ore finiranno per annodare indissolubilmente le loro vite e segnare per sempre quelle dei genitori, del giovane parroco, don Maurizio, e persino del povero Gianin, il matto dal braccio sifulo che vive in una catapecchia comunale con la sua cagnetta Mimì. Un’ombra nera, spessa e opprimente calerà sull’intero paese, sovrapponendosi alla nebbia che già ammanta le strade e offusca i pensieri, quando non è sufficiente il vino che l’Anna serve nel suo storico bar a pochi passi dalla chiesa.

Nessuno può sapere che quel giorno, quell’insignificante punto del tempo al quale la narrazione esterna tende in un continuo ritorno al presente, è sempre stato l’origine e la destinazione delle loro traiettorie esistenziali. Come se il tempo avesse memoria e si facesse carico dei ricordi, anche di quelli che non ci hanno ancora raggiunto o che vorremmo cancellare. E invece “Sono lì che aspettano di tornare quando si è più vulnerabili. E si è sempre fragili davanti al male. Le cose cattive sono più determinate delle cose buone” (p. 89), e alcune “ti restano appiccicate addosso, pure quando tutti gli altri fanno finta che non le vedono e a te ti sembra che non ci sono mai state, ma non è vero” (p. 117).

Il paese narrato da Mattia Grigolo è prossimità di anime che non annulla le solitudini: al contrario, le genera e le amplifica. Ogni accidente è dolore di tutti che si patisce per se stessi; ogni peccato è pena collettiva che si sconta entro gli angusti confini del proprio tormento. Il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il colpevole e l’innocente, la vittima, l’aguzzino e il salvatore. Colui che giudica e colui che viene giudicato, il confessore e il penitente. Sono categorie prive di confini e indistinguibili sagome in cerca di riparo nel silenzio delle strade buie e deserte. “Restano solo uomini, gente che ha passato un altro Natale e ora se lo beve, che ha accettato quello che il mondo, o forse soltanto quel piccolo paese della provincia padana, ha deciso per loro: chi il santo, chi la vittima, chi l’amico, chi il carnefice” (p. 187).

L’assoluzione e la condanna passano di bocca in bocca, ma nessuno le pronuncia perché la Gente alla buona non si ferma ad ascoltare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Fubbàll

 
 
 
 

Lo avevamo lasciato tra le stradine di un villaggio ridotto in macerie dal terremoto sull’appennino abruzzese, Remo Rapino, scrittore e poeta classe 1951, premio Campiello nel 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax, 2019), e in noi ancora echeggiavano le malinconiche voci di Mengo e degli altri abitanti del borgo immaginario cui aveva dato vita con Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2021), mentre approcciavamo Fubbàll, la raccolta di racconti brevi con cui è di recente tornato in libreria per la stessa casa editrice delle due opere precedenti.

FubbàllIl libro contiene le storie di dodici ex calciatori narrate in prima persona, a formare una simbolica squadra, dal portiere al centravanti, allenatore compreso. Ma, ancora una volta fedele al proprio immaginario, Rapino attinge alle seconde linee del campionario umano. Coloro che parlano, restituendoci l’inconfondibile timbro narrativo dell’autore teso a un sapiente utilizzo della lingua parlata con efficaci contaminazioni gergali, non sono i divi del pallone, le stelle che riempiono le pagine dei giornali ed esaltano le fantasie dei tifosi, sono i proletari del prato verde, quelli che hanno fatto la gavetta nelle serie minori, arrabattandosi tra sterrati polverosi e un lavoro vero per guadagnarsi di che campare, in attesa dell’occasione della vita da cogliere al volo. Gregari votati alla fatica, “Che alla fine così rotola il mondo, farfalle e calabroni. Le farfalle belle colorate che svolazzano in silenzio col sole che le fa brillare, i calabroni, invece, che ti ronzano intorno senza pietà fino a farti venir voglia di spiaccicarli sul muro, che vanno a sbattere sempre contro un vetro come balenghi, però non mollano mai” (p. 66); sfortunati o incompresi giocolieri di talento; eroi che hanno assaporato la gloria per una stagione, per un giorno o solo per una manciata di minuti, bravi ma non abbastanza per raggiungere la consacrazione definitiva.

Come Milo, portiere comunista, poi anarchico — perché socialista come il nonno e il padre gli sembrava poco — e infine “portiere e basta” (p. 13). Milo, che leggeva Stendhal e giocava solo per squadre che vestivano di rossonero. “Rosso e nero come la bandiera dell’anarchia” (ibid.).

Uomini di sostanza e di cuore come Glauco detto il bagnino, terzino dall’entrata pesante, “operaio del pallone” (p. 36) che perdeva il sonno per Gigi Moroni, Roberto Boninsegna e Gigi Riva, e voleva far capire “che il mondo ha bisogno di tutti e di tutto, pure delle persone come me che fanno al meglio quello che gli dicono di fare, che non gli fanno tanti complimenti se azzecca qualcosa oppure lo riempiono di offese terribili quando sbaglia” (ibid.). E chissà quali epiche battaglie avrebbero ingaggiato, se la sua strada avesse intersecato quella di Baffino, il fantasista col vizio del fumo e dei colpi di tacco?

Anche Pablo era comunista, l’attaccante diventato “calciatore per caso, e operaio per necessità” (pp. 110-111), “un passeur, un tiracalci di contrabbando, nato e cresciuto tra le contrade piemontesi” (p. 110, qui e oltre, corsivo nel testo), ingenuo al punto che “per fare gruppo regalavo ai compagni di squadra i libri di Pavese e Lee Masters, Márquez e Corto Maltese, però, per farmi perdonare accettavo poi di andare a vedere film tipo Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, mica solo Buñuel, Fellini, Antonioni” (p. 115).

Per metterli in campo con un minimo di disciplina forse ci sarebbe voluto uno come Oliviero, detto Levriero perché a Lanciano qualcuno un giorno aveva cominciato a storpiargli il nome, “quasi che giocare con i nomi fosse un’usanza di quei paesi” (p. 145). Giocatore e allenatore, per un po’ l’uno e l’altro insieme, ma pure partigiano nella Brigata Maiella e calzolaio, anche se “un po’ speciale, che soprattutto modificavo scarpe normali in scarpe da calcio” (p. 148).

Nel libro di Rapino c’è il fubbàll di un tempo ormai lontano. E, sullo sfondo, la storia nazionale del secolo scorso, segnata da conflitti bellici e sociali. Lo sport amato e raccontato da Nicolò Carosio e Gianni Brera, di cui hanno scritto autori come Osvaldo Soriano, Pasolini, Saba, Pennac, narrato dalle periferie del pallone, passando talvolta, quasi per caso o per errore, dalle grandi città: Roma, Firenze, Torino, Genova, Buenos Aires.

Il calcio qui visto non come metafora della vita, ma come parte di essa. D’altro canto, “dare due calci al pallone […] era un segmento dei […] giorni, semplicemente un altro modo di consumare il tempo” (p. 113), e “il campo è quello che è, mica puoi uscire dai suoi confini. Sarebbe come uscire dalla vita” (p. 15). Piccole e romantiche epopee ellittiche che, tra nostalgie e rimpianti, si chiudono lì dove tutto ha avuto inizio, con il rettangolo di gioco e il pallone a fare da fuochi e la giovinezza nel mezzo.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

L’invenzione di Morel

 
 
 
 

Per sfuggire a una condanna ed evitare il carcere, un uomo il cui nome ci è sconosciuto si rifugia su un’isola malsana creduta disabitata. Qui, restando sempre nascosto come si addice a un fuggitivo, trascorre il tempo cercando di sopravvivere all’inclemenza della natura e osservando i misteriosi abitanti del luogo. Nell’impossibilità di interagire con essi per paura di venire catturato, proverà a capire chi siano e a spiegarne gli strani comportamenti.

È difficile dire altro riguardo L’invenzione di Morel, di certo il più conosciuto tra i romanzi di Adolfo Bioy Casares, senza rischiare di svelare troppo di una storia nella quale gli avvenimenti hanno valore trascurabile perché tutto si gioca su un sospetto che, pagina dopo pagina, diventerà certezza capace di scardinare nel lettore ogni punto fermo.

L'invenzione di Morel

Jorge Luis Borges, nel prologo all’opera dell’amico e collaboratore, la definì un esempio perfetto di romanzo d’avventura, rinvenendo in essa tutti gli elementi tipici del genere (l’intreccio, la tensione crescente con l’avvicinarsi del momento topico, le incursioni del fantastico) e cogliendo così l’occasione per esaltare tale forma narrativa in contrapposizione al romanzo psicologico ritenuto antiquato. Ce ne dà conto la traduttrice Francesca Lazzarato, nella postfazione al volume da lei curato per Sur e uscito nel 2017.

Sorprende, come fa notare Lazzarato, che ciò accada in riferimento a un’opera nella quale gli avvenimenti sono limitati a un continuo ripetersi di gesti, e le dinamiche umane (la paura, la solitudine, persino l’amore) giungono al lettore per deduzione, come mero presagio, in un non luogo che è esso stesso solo una spoglia riproduzione del mondo reale, popolata da ombre relegate in un perenne presente che vorrebbe ambire all’eternità ma finisce per concretizzarsi in una sua deludente e precaria imitazione.

Lo stesso protagonista, ora in fuga anche dalla solitudine, da semplice osservatore diventa attore in un surrogato che dell’esistenza ha soltanto le sembianze, intrappolato in una dimensione nella quale quella solitudine a cui cercava rimedio è destinata a perpetrarsi immutabile per un indeterminato tempo individuale.

La forza del romanzo dello scrittore argentino, pubblicato per la prima volta nel 1940 e ancora oggi attuale e modernissimo (si pensi, per esempio, alle riflessioni e inquietudini che scaturiscono dall’avvento del metaverso o dai progressi compiuti dall’intelligenza artificiale), risiede anche e soprattutto nella capacità di affidare a chi legge il compito di indagare le tracce che l’autore ha disseminato tra le pagine, non alla ricerca di una morale o di una interpretazione univoca e definitiva, bensì degli interrogativi che possano dare un senso all’opera. In tal modo il destino dei personaggi (e delle ombre) narrati da Bioy Casares e quello del lettore arrivano a sovrapporsi nel vano tentativo di raggiungere la consapevolezza di sé e della realtà, contestualizzandola in un tempo che appartenga loro e possa essere non certo governato ma almeno vissuto.

E in fin dei conti potrebbe essere proprio questa l’invenzione di Adolfo Bioy Casares: condurci al cospetto degli inesplicabili quesiti fondamentali cosicché, nel cercare delle risposte, possiamo affermare la nostra esistenza e cimentarci con quanto di più prossimo all’immortalità ci sia dato di sperimentare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Nostalgie della Terra

 
 
 
 

«Proveniamo dalla grande isola che non ha nome, […] sputati sulle rive di rena conchilifera nel Villaggio Pescatori, là dove il mare si quieta e diventa laguna» (p. 13). Si prova un sorprendente senso di familiarità nel confrontarsi con la prosa di Mauro Tetti, nel leggere le storie, i personaggi e i luoghi raccontati nelle pagine di Nostalgie della Terra, il nuovo romanzo dello scrittore oristanese uscito nel 2021 per Italo Svevo, raro tentativo italiano di letteratura ergodica, esito del fortunato incontro tra la veste grafica ed estetica della casa editrice triestina (solita proporre al lettore i suoi volumi con le pagine intonse) e le intuizioni coraggiose dell’autore che sceglie di mantenere nel testo, barrate, alcune parti cassate in fase di editing. Il genere di familiarità inconscia e acquisita che si avverte in certi sogni, e allo stesso tempo rassicurante come accade nei luoghi che ci appartengono in misura più intima.

Nostalgie della Terra

Il viaggio attraverso il quale ci conduce Tetti si dipana in una dimensione sospesa, e contesa, tra l’onirico e la realtà, in un “delirio della tempesta. Della vita o della morte. Della vita tanto vicina alla morte” (p. 89) nel quale spazio e tempo sono “deformati”, perché “Quando non sei niente il tempo non è più […] in un millesimo di secondo il mondo potrebbe cadere, in una manciata di giorni sarà passato lo stesso tempo utile ai vivi per vedere l’ingresso di Andromeda nella Via Lattea” (p. 88).

Un non tempo e un non luogo, che sono tutto il tempo e ogni luogo, popolati da spettri, ombre, proiezioni della mente obnubilata del protagonista, anch’egli senza nome. L’uomo lascerà il natale Villaggio Pescatori prima diretto a Cagliari, la città verso la quale i bambini sulla spiaggia di Giorgino edificano ponti immaginari per colmare una distanza che è già metafora delle aberrazioni che lo attendono lungo il suo itinerario, per ritrovare la sua Naira, inseguendo il ricordo di un incontro che potrebbe non essere mai accaduto. Trovata la donna che aveva sognato e idealizzato per anni, presto la abbandonerà, imbarcandosi su “un vecchio peschereccio portoghese a cui era stato dato il nome di un’isola” (p. 71), con una ciurma di marinai e cercatori di fortune, reali quanto un moto di ribellione dell’inconscio che si palesa. Partiranno alla ricerca di un magico oggetto dai poteri strabilianti, seguendo le tracce sui diari e le mappe lasciate da Maddalena, la vecchia dai “segni d’inchiostro che cambiano forma […], seguono la via delle clavicole e scendono sui seni, si dividono per le braccia in ogni direzione per tornare indietro e incontrarsi tra le scapole” (p. 16).

I personaggi raccontati da Tetti provengono da un immaginario che attinge alla mitologia mediterranea, a leggende, superstizioni e credenze popolari sarde — ma verrebbe da dire universali — mescolando fantasia e lucido vaneggiamento. E come spesso accade nei grandi miti del passato o tra le pagine degli scrittori che lo hanno preceduto in un analogo visionario approccio alla scrittura (ci vengono in mente Borges, a cui il titolo stesso rende omaggio citando un suo saggio sul tempo, il Marquez di Cent’anni di solitudine, o il Sergio Atzeni di Passavamo sulla terra leggeri e Il quinto passo è l’addio, che a tratti pare quasi di scorgere oltre i bastioni in pietra sbiancata della città murata), personaggi e luoghi finiscono per fondersi in un solo nome, in una sola immagine: “L’arcipelago ha terramare di conchiglia e sabbia, per molte e molte miglia. Costiere di sabbie dolci e colorate […]. Non abbiamo fretta e il pescato è sempre abbondante, non viene mai sprecato. Qualcheduno prende a chiamarlo col mio nome, l’arcipelago di Maddalena, è una sciagura, dico io” (p. 163).

Ma quegli stessi luoghi, tappe di un viaggio che potrebbe dipanarsi nell’immobilità dinamica di un’allucinazione, vedono la loro aura mitica violata, inquinata dall’impronta oscena della degradazione umana. E se “Un tempo le anse dell’isola [di Malu Entu] dovevano essere cave di quarzite” (p. 92), nel presente indeterminato di Nostalgie della terra “Nell’acqua melmosa galleggiavano le trappole: plastica, buste nere per i rifiuti, reti ingannatrici, frammenti affilati nella pelle umida dei rettili” (ibid.). E ancora: “L’arcipelago [di Maddalena] subiva una volta all’anno un potente cataclisma, […] tali cataclismi erano causati dalle bombe all’uranio sganciate durante le esercitazioni militari al largo del Tirreno. […] E di veleni erano piene le acque e i terreni pure, perché proprio quando gli spargitori credevano di rendere fertili terre e mari col proprio seme, li stavano in quella maniera avvelenando” (pp. 144 – 145).

Dove ci conduce, dunque, il viaggio al quale ci invita Mauro Tetti? Ancora una volta in nessun luogo e in ogni luogo, ci porta davanti all’universo noto e ignoto, oltre l’orizzonte degli eventi, faccia a faccia con la singolarità in cui si addensano le contraddizioni della nostra coscienza, individuale e collettiva.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

MAPPA DI UN CUORE CHE BRUCIA

 
 
 
 
di Caterina Villa
 
 
 
 

Freddo. Nuvole troppo vicine al naso. Un lampo in fondo agli occhi quando finisce nel cono di luce di un lampione. Rotolare di sassi di un motorino che passa sghignazzando. Eugenio si stringe nel cappotto. Zaffata di naftalina. Preso dal mucchio, sì quello che ha portato don Mauro. Colori troppo rumorosi. Ma questo è nero. Nero va bene. E ora nella tasca un peso che prima non c’era. Strano. Buono. Fresco. Ci lascia scorrere sopra le dita. Continua a camminare.

Nel naso aveva odore d’incenso. Cantavano Santo, Santo, Santo. Quella la sa anche lui. Don Mauro gli dice sempre che ha una buona memoria. Li porta in chiesa tutte le domeniche, tutti insieme in fila indiana lungo i marciapiedi, seduti in fondo sull’autobus. Don Mauro li porta nella chiesa principale, però. Quella con quell’uomo sulla croce grande che ha sempre la faccia disperata, come Lorenzo quando si sveglia di notte nel letto accanto al suo, la bocca deformata, l’ultimo urlo infilzato nel labbro come gli ami di Barabba, che con lui non doveva parlarci diceva lei. Don Mauro li fa sedere nei primi banchi. Eugenio tiene le mani sotto le cosce. Ferme mani. Non bisogna spaginare il breviario, né tamburellare sul legno e nemmeno giocare a morra. Sotto le cosce. Così è giusto. Così va bene. Nella chiesa grande, però, ci sono candele e monete nel cestino con il manico lungo e fiori, fiori dappertutto e prude il naso e i fiori. Nella stanza che sa d’incenso, invece, non c’erano candele né fiori. C’era odore di legno vecchio e una luMappa di un cuore che bruciace piccola. E sul muro tante facce e divise e bianco e grigio. Piloti davanti ai loro aerei, piloti in posa, piloti contro lo sfondo del cielo e della pista vuota. Piloti come nonno Enrico, che non aveva mai conosciuto ma che sapeva come il Santo, Santo, Santo. Vorrei portarvi via tutti, aveva pensato. Ma poi si era guardato le mani ed erano solo due. Non potevano bastare. Un po’ più a destra, in un angolo, cuori d’argento su un rosso polveroso. Grappoli luminosi. Aveva allungato una mano, aveva toccato un cuore. Era liscio. E sopra? Ma quel cuore stava bruciando! Andava spento? Era leggero. Come i passerotti che riportava la micia. Con quei becchi gialli e gli occhietti chiusi. Se l’era messo in tasca liscio e leggero e bruciante. Avrebbe funzionato.

E così adesso aspetta che il cuore faccia il suo lavoro. Ha camminato e nel frattempo è scesa la notte e la nebbia si è ingoiata la cima della torre, quella alta, quella da cui se l’aria è pulita si vede il mare. Una strisciolina laggiù. Ma non si deve pensare al mare. Mare vuol dire lei. Vuol dire sale e acqua e qualcosa che non va con lui. In lui. Vuol dire molto caldo e un vuoto che si espande tutt’intorno. Come nello spazio, l’ha visto in un film l’ha visto. Niente mare. Cattivo mare.

La strada è nera e lucida, bava di lumaca – che groppo che gli fanno venire in gola le lumache così nude e morbide e umide. Annusa forte. Sotto i portici c’è già odore d’inverno. Un signore russa piano avvolto in una coperta. È ora di dormire? Tira su il braccio, si scopre il polso sinistro, fa così Don Mauro quando poi dice l’ora. Ma il suo di polso è nudo. Non ha un orologio, ma ha fame. Nella tasca accarezza il cuore, piano, per non spaventarlo. Forza piccolo, lavora. Da un bar si rovesciano fuori delle risate, rumore di bicchieri, voci gonfie che fan paura. E cos’è che batte adesso? Il suo di cuore o quello che brucia? Si piega un poco su se stesso, per ascoltare meglio. Forse è il suo di cuore, quello magico non batte, brucia eterno e basta. Le colonne sfilano alla sua sinistra e gli fanno venire da ridere, dritte così, ma non si ride da soli per strada, sennò si accorgono di te e ti guardano come se dentro portassi nascosto qualcosa di terribile, anche se, che lui sappia, dentro non c’è proprio niente a parte i polmoni e il fegato e il sangue ma quella roba se la portano dietro tutti, no? Allora sta zitto e ride nella sua testa. Imbocca l’ottava strada a destra. Bel numero l’otto, morbido, tondo, bignè alla crema. È da un po’ che segue un odore specifico, odore di legna e cenere, sì, odore di qualcosa che non c’è più. Odore di una casa piccola e un albicocco fuori dalla porta e un gatto con gli occhi azzurri. Non saprebbe ritrovarla quella casa. Sopra la sua testa sfilano persiane chiuse, l’umidità gli si appiccica addosso. Deve aprire bene la bocca per respirare. Non si può fermare. Come gli squali, no? Che non si fermano mai. Non bisogna far spegnere il cuore, sennò non può funzionare. Sennò non può riportarla qui.

Il portone si apre all’improvviso, legno marcio e il freddo che cambia di tono. Stringe il cuore e ci s’infila dentro. Mura gialle canarino uccellino tuorlo d’uovo. Alberi sottili e fuoco e musica, profonda, che gli rimane sotto la suola delle scarpe. C’è uno striscione appeso di traverso sopra le arcate. Non riesce a leggere cosa c’è scritto, linee e curve nere.  Gli fanno venire in mente le nuvole che formano gli stormi degli uccelli prima di ripartire per l’inverno. Ce n’erano tante sopra i tetti al mare, il corso vuoto, le cartacce sotto le panchine, le gelaterie chiuse. No, non il mare di nuovo. Scuote la testa Eugenio. Deve tornare qui. Tutt’intorno ci sono le ombre, ombre vicino a un fuoco, ombre sedute a un tavolo sotto stelle di vetro. Ma lui non ha paura, lui ha il cuore, lui è invincibile e presto lei tornerà e riprenderanno da quando l’ha lasciato. Un’ombra si avvicina, gli chiede se ha fame, lui annuisce. Mangia senza guardare nel piatto, fissa le fiamme e inspira il fumo. Mangia in piedi dondolandosi piano. Non ci si ferma. No, non ci si ferma. La nebbia sta scendendo ancora. Deve andare. S’inchina alle ombre e poi s’incammina, curvo su se stesso, una conchiglia intorno alla speranza.

Buio e umido intorno e dentro un frullio sommesso. Prega i suoi piedi di continuare a disegnare la mappa per tornare da lei, ma c’è un peso nuovo nelle ossa, un chiarore inizia a diffondersi su nel cielo.

All’improvviso tutto esplode di giallo. A terra, in aria. Il giallo scende in piccoli riquadri e tappezza la piazza. Come carte di caramelle, come miele quando aveva il mal di gola. Le sue dita trovano le fiamme del cuore. Vorrebbe che gli tagliassero via la pelle. Anche se sa che pure questo non va bene, che anche questo fa piangere l’uomo sulla croce. Si abbassa, infila le mani tra le foglie, sono sottili. Ventagli piccoli che sanno di terra. Un tempo gli hanno detto come si chiamava l’albero da cui son cadute ma lui il nome non lo ricorda. Sono ovunque, i ventagli, fino al portale della chiesa. È enorme e gli fa tremare i polsi.

Perché ancora lei non è qui? Perché non arriva ad abbracciarlo, a cancellare le parole e le medicine e gli sguardi.

Eppure lui ha camminato, ha cullato il cuore amuleto magia e adesso la notte sta per finire. Afferra il cuore lo tira fuori dal suo nascondiglio nero naftalina. Se lo rigira tra le mani. Brutto cuore. Cattivo cuore.

Lo schianta a terra in mezzo al giallo. E da dentro, in fondo al sangue e alle cose più nascoste, nasce un urlo che gli risale su per la gola ed esce nel mondo.

Nella testa è un rollio di suoni e il mare e il vento. Ha disegnato una mappa per lei, ci ha messo il cuore in mezzo. E tanto lei non torna. Lei con la sua mano grande intorno alla sua piccola. Già sbagliata. Per sempre sbagliata.

 
 

Caterina Villa, nata nel 1988 ad Assisi, vive a Roma e lavora come giornalista televisiva. Di recente ha pubblicato due racconti su “Rivista Blam” e un suo racconto è stato selezionato per far parte dell’antologia del progetto “Sfocature” organizzato da Fiaf, Risme ed Emuse.

 
 

llustrazione originale di Cristiano Baricelli

 

Cristiano Baricelli nasce a Genova nel 1977. Autodidatta dal 1997, elabora una personale tecnica di disegno basata sull’uso della penna a sfera. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali e collabora con Fanzine e Magazine di illustrazione tra cui: Grrrz Comic Art Books, Nurant, Osel,Watt, CartaCanta, Nitch, L’inquieto, Pastiche, Verde Rivista, Antropoide, Illustrati, Nèura, Freak Out, Guida 42, Carie, Rituali, Effe Rivista, Risme, Squadernauti, Racconti Crestati, Digressioni, Horror Moth. Attualmente sta sperimentando tecniche miste, e odia svegliarsi presto la mattina.