C’era in principio un principe felice, che amava la pace e gli onesti princîpi. Viveva in un mondo di grande portento, in un tempo scelto a caso, con gioioso fare. Aveva molteplici amici, e nel cuore una luce speciale per l’amico giullare.
Un giorno si ritrovò a camminare senza posa e a piena pena sulle mura del castello di lamiera, ché come un pipistrello la falena, lo inseguiva un affanno levandogli il sonno di torno: era suo padre, testa dura come un corno. Voleva il testardo che senza ritardo il suo unico erede prendesse una moglie per bene, che senza batter ciglia sposasse una bella fanciulla e continuasse la stirpe di famiglia; voleva il re che il proprio nome fosse con tanto onore a tutti noto anche in futuro, senza condizioni, per generazioni imperituro.
Ma padre e figlio erano differenti come il grido e il bisbiglio. Il re aveva in gioventù vinto centoventi draghi incandescenti, e nessuno mai ne aveva combattuto o battuti altrettanti. Il principe, invece, alla vista di uno sputafiamme levava le gambe lemme lemme, trovava le armature pesanti e irritanti, perfino ingrigenti, e preferiva indossare vesti comode e senza guanti.
Il suo unico incanto era l’amico di gioco e di canto, il matto di corte. Passavano ore ad arte, raccontandosi storie di ogni sorta, aprivano porte proibite dal re, per fargli dispetto, e con rispetto si dedicavano ai poveri del villaggio, tutti uguali al suo cospetto. Il re non capiva perché suo figlio non trovasse moglie, era convinto che avere una famiglia rendesse felici più di un quadrifoglio. Invero di amici il principe ne aveva tanti, a cominciare dal giullare, quella era la sua famiglia, non di sangue o lignaggio, ma d’intenti e affinaggio.
Il padre non era affatto d’accordo:
«Mi fai torto a pensare i sudditi tuoi amici» gli fece notare, «e il giullare è solo un buffone! Devi trovare persone buone al tuo paragone, come il caviale, gente di sangue reale.»
Il re ordinò che prima che quello stesso mese finisse suo figlio si sposasse.
Il principe di sposarsi non ne aveva mente, e dolente si mise in un angolo con un pungolo in cuore: era pur sempre un figlio devoto, e voleva onorare il volere del padre. Con gesto benevolo gli si avvicinò il giullare, e insieme pensarono come attuare un piano nuziale.
Venne il giorno delle nozze. Il regno era in festa, si ballava ovunque nelle piazze, e carrozze giungevano a frotte da terre lontane, con doni a fontane. Nessuno sapeva a chi stesse per legarsi lo sposo, e il padre più di tutti era curioso. Quando il principe entrò a corte, forte era la tensione, indicibile lo stupore: la persona accanto al principe era piena di colore, coperta di farfalle da capo a piedi. Gli occhi avidi del re, a stento a freno, chiesero chi ci fosse dietro quell’arcobaleno. Il principe sorrise e soffiò, e in un baleno tutte le farfalle (verdi, rosse, blu e gialle) volarono via, riempiendo il castello di un senso immenso di allegria. E pure il segreto fu svelato: era il giullare che il principe avrebbe voluto sposare.
A quella scena bizzarra il re pensò si trattasse di una burla, che le urla festanti dei cortigiani non avevano capito. Ma amara fu la sorpresa quando, presa la mano del matto, il principe lo baciò di scatto. In un atto di sdegno il re saltò giù dal trono, levò alta la mano e diede un ceffone a quel figlio cialtrone.
«Fuori dal mio regno!» urlò pieno d’ira e senza contegno. «Qui non metterai più piede fino a quando non ti sarai mostrato degno del mio stesso vanto.»
Il re si riferiva ai centoventi draghi che aveva vinto in gioventù, e qualcosa di più grande il principe avrebbe dovuto fare per riconquistare il suo posto a corte. Una sorte orribile, perché il principe sapeva quanto improbabile quell’impresa si prospettava: la sua mano non sapeva impugnare una spada, e di bestia arcana non ne voleva alcuna. Per cui a capo reclino, con il matto al suo fianco, uscì dal castello verso il suo destino, bianco in volto e lo sguardo stravolto.
Camminarono ore, il principe e il giullare, senza una meta o una direzione. Giunsero a sera nei pressi di una pineta, oscura come la bocca di un leone, piena di mugghii sconosciuti e aliti di vento barbuti. Trovarono una baracca senza porta, con la volta del tetto disfatta e le finestre meste per la lotta col Grecale. Non avendo altro e pensandola abbandonata, rimasero lì a passarvi la nottata. Giunse una donna, vecchia come una ciabatta bucata, era sua quella casa diroccata. I due decisero di ripartire, ma la donna li invitò a restare, e ascoltò per ore le pene che avevano in cuore. Sorrise, la donna, come solo chi ha vissuto a lungo può fare, e promise che insieme avrebbero risolto quel malaffare.
Pur avendo tutti faccende cui badare, tanti amici, compagni e conoscenti presero a radunare gli ingredienti per una torta senza precedenti: mandorle a migliaia, farina a tonnellate, zucchero e cioccolata in quantità sproporzionate. Ma quando la ciliegia era pronta per essere posta, neanche a farlo apposta il principe inciampò, e con urla disperate andò in fumo il lavoro di lunghe giornate.
Pur stanchi dalla lunga preparazione, senza esitazione il principe e i suoi amici si diedero al lavoro a maglia di una sciarpa che avvolgesse la terra. E vedere quella ciurmaglia adoperarsi con fil di lana, seta e porcellana era una meraviglia. Ma qualsivoglia cauto intento fu presto infranto: il fratello del re si era dedicato all’impresa la sua intera vita, lavorando nella sua baita una sciarpa lunga infinita.
Pur non possedendo altro che un vecchio cappio e un po’ di muschio selvaggio, frugando dal rigattiere trovarono confetti e caffettiere, libri letti di fretta, trappole per topi e cupi stracci negletti. Impilarono tutto su ruote rotte di bicicletta, e come una capretta il principe saltava da una molletta a una graffetta, sempre più in alto, sicché una volta superate le allodole in volo, potesse con comodo acchiappare il sole. Tutti stupefatti stavano in attesa, sapevano infatti che una simile impresa era senza precedenti e strepitosa. Anche le nuvole stavano in posa. Ma quando la torre era alta abbastanza, i ratti in tutta fretta rosicchiarono carte e porte, e la torre eretta in esultanza cadde con fracasso e gran baldanza.
Il principe rimase di sasso, come se un masso lo avesse preso in testa. Senza festa nel petto, in quella situazione funesta abbracciò il giullare, per farsi consolare almeno un po’, e continuò ad abbracciarlo, perché come si può ci si dà sostegno. Via dal regno i due non smisero di abbracciarsi, ché quello era il loro modo di amarsi, e continuarono l’abbraccio anche di notte, per star caldi come pagnotte al focolare. E quando fu giorno i due stavano ancora stretti come un catenaccio, ché l’uno in braccio all’altro li aveva trovati il sonno. E pure all’aurora dell’autunno non smisero di abbracciarsi, tanto era bello darsi all’amico e perdersi in discorsi. Andarono avanti così, appesi per settimane e mesi, decisi a mai lasciarsi, di versi e sorsi intrisi, e avvenne che quello divenne l’abbraccio più lungo di tutti i paesi.
Il re fu impressionato da tanta costanza e finalmente capì l’essenza profonda del loro attaccamento: decretò pertanto che il loro primato era imbattuto, e a quell’unione diede infine la sua benedizione. E così per sempre vissero gioiosamente il principe e il suo matto – e il loro abbraccio fu il patto di affetto più intatto mai stretto.
Thomas Lehn è cresciuto sotto pini marini che guardavano il mare, e ora vive accanto a salici piangenti che sfiorano un fiume. Ha una pessima memoria, che rattoppa con valigie piene di foto e schedari sfondati dal ticchettio della tastiera. Ha creato Oblò per scrivere meglio, e pubblica racconti su riviste online.
Illustrazione di Carlotta Mazzi
Carlotta Mazzi (03/04/1992)
Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera dove ha conseguito il Diploma di II Livello in Grafica d’Arte. Oltre alla passione per la grafica e la stampa d’arte coltiva da anni l’interesse per l’illustrazione. Oggi parallelamente alla ricerca artistica personale è occupata come docente di arte e grafica nella scuola secondaria di I e II grado. È una delle più fedeli illustratrici di Squadernauti.