Mattia Grigolo

Gente alla buona

 
 
 
 

Quanti segreti nasconde la Gente alla buona di Mattia Grigolo (Fandango, 2024)? Quali colpe devono spartirsi ed espiare gli abitanti di un piccolo paese della Bassa padana, che negli anni Sessanta contava trecento anime e oggi se ne ritrova dieci volte tante? Eppure, niente è cambiato, il paese è ancora “Come un orecchio che da qualche parte ascolta quello che gli sta dicendo una bocca. E questo orecchio qui non c’ha una testa a cui è attaccato e quella bocca non ha una voce sola: è la bocca di tutti” (p. 84).

Il paese che ti possiede e non ti lascia andare, con “i suoi codici, la sua forma, l’amalgama di tutti quando tutti sono uno solo, anche chi non c’è, chi non c’entra, chi sta dormendo, chi è lontano, chi è già morto e chi deve ancora nascere” (p. 93). E così quelle colpe sembrano propagarsi dai genitori ai figli e dai figli ai genitori, nelle cinque decadi racchiuse nel romanzo e ripercorse seguendo una linea temporale che, tra passi in avanti e balzi verso il passato, si avviluppa attorno ai luoghi e alle anime che a essi appartengono.

Gente alla buonaSara, Brando, Larcher e Michele hanno tredici anni nel Natale del 1996, funestato da due morti che sconvolgono la comunità e sollevano sospetti. Alla loro età i gravami e i crucci della condizione umana li raggiungono solo di riflesso, quando gli adulti non sono capaci di proteggerne l’innocenza tenendoli per sé. Non possono immaginare che gli eventi di quelle ore finiranno per annodare indissolubilmente le loro vite e segnare per sempre quelle dei genitori, del giovane parroco, don Maurizio, e persino del povero Gianin, il matto dal braccio sifulo che vive in una catapecchia comunale con la sua cagnetta Mimì. Un’ombra nera, spessa e opprimente calerà sull’intero paese, sovrapponendosi alla nebbia che già ammanta le strade e offusca i pensieri, quando non è sufficiente il vino che l’Anna serve nel suo storico bar a pochi passi dalla chiesa.

Nessuno può sapere che quel giorno, quell’insignificante punto del tempo al quale la narrazione esterna tende in un continuo ritorno al presente, è sempre stato l’origine e la destinazione delle loro traiettorie esistenziali. Come se il tempo avesse memoria e si facesse carico dei ricordi, anche di quelli che non ci hanno ancora raggiunto o che vorremmo cancellare. E invece “Sono lì che aspettano di tornare quando si è più vulnerabili. E si è sempre fragili davanti al male. Le cose cattive sono più determinate delle cose buone” (p. 89), e alcune “ti restano appiccicate addosso, pure quando tutti gli altri fanno finta che non le vedono e a te ti sembra che non ci sono mai state, ma non è vero” (p. 117).

Il paese narrato da Mattia Grigolo è prossimità di anime che non annulla le solitudini: al contrario, le genera e le amplifica. Ogni accidente è dolore di tutti che si patisce per se stessi; ogni peccato è pena collettiva che si sconta entro gli angusti confini del proprio tormento. Il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il colpevole e l’innocente, la vittima, l’aguzzino e il salvatore. Colui che giudica e colui che viene giudicato, il confessore e il penitente. Sono categorie prive di confini e indistinguibili sagome in cerca di riparo nel silenzio delle strade buie e deserte. “Restano solo uomini, gente che ha passato un altro Natale e ora se lo beve, che ha accettato quello che il mondo, o forse soltanto quel piccolo paese della provincia padana, ha deciso per loro: chi il santo, chi la vittima, chi l’amico, chi il carnefice” (p. 187).

L’assoluzione e la condanna passano di bocca in bocca, ma nessuno le pronuncia perché la Gente alla buona non si ferma ad ascoltare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Temevo dicessi l’amore

 

 

I racconti di Temevo dicessi l’amore di Mattia Grigolo (TerraRossa Edizioni, 2023) hanno un centro gravitazionale: Ofelia. Non riusciamo a ricostruirne il volto, gli accadimenti della vita in sequenza lineare. Poco importa. Sappiamo solo che la protagonista è un personaggio lunare che spiazza gli interlocutori con le sue osservazioni eccentriche, spesso al limite del surreale. Ofelia che parla con i cani e con i loro fantasmi, con esseri umani vivi e morti, costruisce cavalli di legno per le giostre, spara al tiro a segno e va sulle montagne russe al lunapark, ama donne e uomini con la stessa profondità, anche se per un periodo della sua vita è stata un angelo.

Temevo dicessi l'amoreNon c’è una vera trama nella raccolta. Sappiamo che Ofelia è madre, sorella, figlia e amante nelle epoche della narrazione – infanzia, giovinezza universitaria, maturità. Quello che importa sono le relazioni che ha intessuto di volta in volta e che continuano a rincorrersi, sovrapporsi. Relazioni delineate con grande sensibilità nei loro meccanismi di attrazione e repulsione, sincronia e disaccordo, detto e non detto. Narrate a più voci, quanti i personaggi.

Ma a Mattia Grigolo non interessa la polifonia, la distinzione stilistica dei vari frammenti, né l’evoluzione della protagonista fra un blocco narrativo e l’altro. Tutto appare immobile, rarefatto. Un album fotografico dedicato a un solo soggetto inesauribile da ritrarre utilizzando lo sfuocato, il mosso, per vivificare le mille espressioni. Ciò conferisce al libro il carattere di una costruzione lirica: una raccolta di poesie in cui, direttamente o indirettamente, è l’io della protagonista a parlare. A svelare o nascondere i propri sentimenti. A portarci in profondità grazie alla giustapposizione di attimi distanti nel tempo, situazioni indefinite, emozioni fugaci.

L’elemento unificante dell’opera è l’uso sapiente dei dialoghi. Si ha la sensazione di ascoltare frammenti di un’unica conversazione. Ogni battuta spiazza e tiene in bilico il lettore, suggerisce un’interpretazione o la sospende, spinge alla ricerca di un senso ulteriore al di là delle singole situazioni, come in un libro sapienziale.

Fra i tanti esempi:
«Parli ancora con tuo padre?» (…)
«A volte.»
«Cosa ti manca di lui?»
«Il nostro cane.»
«Parlami della tua solitudine» (pp. 79-80)

«Sai dove mi ha portata?» (…)
«In un cantiere.»
«Un cantiere qualsiasi?»

«Il cantiere che c’è ora dove prima c’era la sua casa d’infanzia.»
«Che cosa commovente.»
«Gli ho chiesto di portarmi in un posto dove non avrei dovuto pensare.»
«E invece ti ha portato nel posto dove lui non può fare a meno di pensare.»
«I suoi pensieri che sotterrano i miei.» (p. 84)

O ancora:
«Signora, non c’è nessuna casa qui.»
Uno di loro si butta dentro l’abitacolo e abbassa il volume dell’autoradio.
«La casa è proprio qui, dove avete parcheggiato la vostra macchina. Non si può parcheggiare in un salotto.» (p. 131)

La conseguenza fondamentale è che in questo paesaggio narrativo diafano ogni elemento assume una grande forza evocativa, magica. Gli animali e gli oggetti disseminati nel testo – pappagalli, cavalli, cani, gatti randagi da adottare, fenicotteri, coyote, volpi – riflettono aspetti taciuti, sotterranei, delle relazioni fra i personaggi, di cui vediamo solo la parte esteriore nei dialoghi e nei gesti compiuti. Persino i capelli rasati di una cameriera diventano lo spettro di un legame: “Entrati nel bar sentimmo odore di bruciato. Chiedemmo di lui alla ragazza con lo straccio in mano. Portava i capelli rasati e, di tanto in tanto, passava una mano sulla testa, come se ne sentisse la mancanza” (p. 99).

Tutti cercano Ofelia, e viceversa. Il suo passato e il suo presente si rincorrono – nell’ultimo racconto, Una cosa da streghe, il buco sul pavimento del bagno in ristrutturazione di una donna anziana sembra un varco temporale per riannodare una relazione perduta. Lo stesso fanno i vivi e i morti intorno a lei – in Eravamo, Ofelia frequenta una associazione di aspiranti suicidi e conversa con i fantasmi di suo padre e del suo cane (“Suo padre sgancia una lattina di Pepsi e ci attacca le labbra. Ingolla rumorosamente. Ofelia si domande se, nella realtà, la stia bevendo lei. Si fa un appunto mentale: ricordati di controllare se domani trovi la lattina aperta”, p. 81).

Ogni personaggio tenta di chiudere il cerchio della sua vita affettiva ma non ci riesce. Lo stesso titolo riflette tale irresolutezza, così vicina a quella della vita reale. A lettura ultimata si ha infatti la sensazione di aver attraversato decine di esistenze, familiari e allo stesso tempo aliene grazie alla parabola eccentrica di Ofelia, forse anch’essa simbolo dell’evanescenza – affettiva, geografica e sociale – delle relazioni umane.

 

 

Agostino Bimbo