Racconto breve

Bonsai

 
 
 
di Vanessa Porqueddu
 
 
 

Ho infilato la chiave nella toppa e ho aperto la porta. L’appartamento era in penombra, erano le sette. Ho acceso la grande lampada sulla destra e una luce calda ha invaso il salone. Vicino all’ampia finestra c’era un divano rosso con tre grandi cuscini di velluto arancione a motivi geometrici blu. Sulla parete dietro al divano era appeso un arazzo con dei fiori giallo zafferano. Un grande tappeto di lana, l’albero della vita al centro e piccoli pavoni alternati a melograni ai lati, copriva quasi tutto il pavimento. Nel mezzo, un tavolino di radica con le gambe intarsiate. Sopra al tavolino una teiera di metallo consumato e sei tazzine in smalto e oro.
 
Il mio attico era parquet di rovere e pareti bianche.
 
Ho poggiato la borsa sul divano. Ho preso l’annaffiatoio che Amin mi aveva lasciato nella cassetta di legno blu insieme a tutto quello che avrei dovuto usare, le cesoie da potatura, le tronchesi concave, la pinza da jin e una decina di altri attrezzi. Sono andata in cucina e l’ho messo sotto il rubinetto.
 
Ero stata in quella casa qualche giorno prima e solo per pochi minuti. Avevo notato che in ogni stanza c’erano librerie stracolme e ora mi soffermavo a osservarle. I libri erano in doppia e tripla fila, senza un ordine apparente.
 
La mia libreria era organizzata un mese per autori, il mese dopo per generi, una volta anche in base ai colori dei dorsi.
 
Ho sentito il respiro che si faceva irregolare, hanno iniziato a sudarmi le mani. Ho attaccato con il mio mantra, sono una donna sposata, e ho fatto quello per cui ero andata.
 
Quando ho finito con i bonsai di Amin, ho riposto tutti gli strumenti nella scatola. Gli avevo promesso di aiutarlo a non interrompere il suo rito nei giorni in cui era via, ma non riuscivo a smettere di chiedermi se fosse stata una buona idea.
 
Ero accaldata, mi sono tolta il cappotto. L’ho appoggiato vicino alla borsa, con il foulard Hermès che mi aveva portato Pascal dall’ultimo viaggio.
 
Sono andata in bagno a sciacquarmi le mani. Vicino al lavandino c’erano decine di bottigliette. Ne ho aperta una. Un profumo di mela e cannella è esploso intorno a me. La Persia di Amin. Ho chiuso il tappo e sono scappata in salone.
 
Mi sono infilata il cappotto e ho preso la borsa. Ho spento tutto, ho aperto la porta e sono rimasta lì, sospesa sull’uscio, per non so quanto tempo.
 
Da quando Pascal era partito, a casa non mi aspettava nessuno. Niente ciabattine per il legno, niente schermi di ultima generazione, niente domotica. Mi sono voltata a guardare il salone di Amin, rischiarato appena dalla luce sul pianerottolo. E sono rientrata.
Mi sono tolta il cappotto, la giacca e il maglione. Poi le scarpe e i pantaloni cammello. In mutande e reggiseno ho camminato sul tappeto. Poi ho lasciato cadere anche quelli. Ho preso il taccuino dalla tasca interna della borsa. Mi sono sdraiata completamente nuda sul divano. E ho scritto.
 
Da mesi non lo facevo più.
 
Sono tornata a casa all’alba.

 
 
 

Vanessa Porqueddu Scrive all’alba, legge a notte fonda. Di giorno vive circondata da codici e fascicoli, ascoltando le vite degli altri. Ha pubblicato, nell’ordine, la sua tesi di laurea, l’avviso di matrimonio e di due battesimi, qualche riflessione giuridica. Da tempo le frulla in testa una storia e ora non ha più scuse.

 
 

Illustrazione originale di Anna Cigoli.

 
 

Anna Cigoli nasce a Cremona il 20 settembre 1978.
Mossa dalla passione per il disegno e la pittura frequenta prima il liceo artistico B.Bembo di Cremona, l’accademia di Brera a Milano e successivamente, sempre a Milano, un corso di comunicazione e stampa artistica dove si specializza nell’incisione e lavora per un anno in una stamperia della città.
Dal 1999 ha partecipato a varie mostre personali e collettive principalmente nel cremonese e nel milanese esponendo anche in gallerie come “Il Triangolo” di Cremona e la “Fondazione Luciana Matalon” di Milano.
Principalmente attiva come pittrice e illustratrice, ha sperimentato anche altri campi come la scultura, il fumetto e l’incisione. Su Squadernauti sono apparse altre sue opere, si possono trovare qui e qui.

 
 

Teletrasporto all’IperIdeal h24

 
 
 
di Antonio Semproni
 
 
 

La leggenda narra che l’IperIdeal h24, terminata la ventiquattresima ora, debba restare chiuso per un istante, percettibile come il rintocco di un pendolo tra ciascun ciclo di ventiquattro ore: chiunque si trovi a passare attraverso le sue porte automatiche in quell’istante verrà teletrasportato in altro IperIdeal h24, anche sito in quartiere non limitrofo a quello di provenienza o localizzato sulle tangenziali, che poi tocca fare l’autostop per tornarsene a casa e se il senso di marcia del cliente era verso l’uscita, dovrà pure ricominciare la spesa daccapo. Ancora non si segnalano fenomeni di teletrasporto però e nemmeno è possibile trovare volontari per un tale fantasmagorico esperimento perché nessuno è riuscito a calcolare il preciso momento in cui scade la ventiquattresima ora degli IperIdeal h24.
 
Voci di corsia suggeriscono uno stratagemma alternativo per essere teletrasportati da un IperIdeal a un altro: richiede un poco di lena, ma tutto sommato è esperibile da chiunque goda di medie capacità deambulatorie e cardio-respiratorie. Basta trovarsi nell’atrio d’ingresso: tra le due porte a vetro automatiche c’è della moquette tagliata corta all’inglese che propizia le discipline motorie e in particolare la corsa, ingrediente essenziale per la riuscita. Bisogna infatti correre da un lato all’altro vieppiù velocemente fino a riuscire ad aprire nel medesimo istante entrambe le porte.

Io, da parte mia, mi sono messo a fare la spola da una porta all’altra, in linea retta: meglio questo che una traiettoria ellittica o circolare che mi avrebbe provocato giramenti di capo. Dopo una decina di vani andirivieni ha fatto capolino all’ingresso una vecchiettina che si trascinava dietro un pesante carrellino per la spesa: i battenti le si sono spalancati davanti ed è bastato un poco di esitazione – le si era incagliata una rotella nella grata di un tombino – perché potessi approfittarne per raggiungere il lato opposto e trovarmi tutto solo – mai avrei coinvolto altri esseri umani inconsapevoli in questo spericolato esperimento – sul rettangolo felpato.
 
È stato allora che un lampo poliforcuto ha traversato l’atrio e per un tempo, di indefinibile durata, mi sono sentito sbalzare e risucchiare in un buco nero dai cigli di fulgida luce fredda. Subito dopo ho ripreso padronanza del mio corpo con un ginocchio piegato a terra e la testa reclinata sull’altro e ho avuto pure la bella sorpresa di ritrovarmi completamente nudo. A giudicare dal parquet sul quale ero accovacciato avrei giurato di essere piombato nell’IperIdeal di un quartiere bene.
 
La mia prima preoccupazione è stata di coprire i genitali e all’uopo mi sono servito degli involucri in cartone dei pandori: uno per gamba e poi un giro di carta argentata a mo’ di cintura. Mossa più arrembante e cinematografica sarebbe stata intimare a un malcapitato cliente di consegnarmi i suoi vestiti, ma brandire un tubo di Pringles o dei coltellini di plastica (punto di rottura stabilito in avanzi di torta millefoglie vecchi di due giorni) mi avrebbe reso imputabile di aggressione a mano armata, punibile con la prigionia nello scomparto surgelati1.
 
Intanto mi accorgo di aver smarrito la lista della spesa e il mio sapere nutrizionale s’incaglia su un nodo gordiano – per tenere basso l’indice glicemico devo assumere sciroppo d’agave, sciroppo di riso o zucchero integrale di canna? – quando quelli del personale2 cominciano a scambiarsi cenni di intesa, sorrisetti e brevi lampi degli occhi come a significare che conoscono bene il mio trucco, quindi mi rivolgono i loro sguardi, calmi e determinati, e dal reparto ortofrutta mi vengono incontro avanzando a semicerchio.
 
Ecco che finalmente si occuperanno del mio caso – auspico – mi provvederanno di biancheria igienizzata, scarpe da ginnastica immacolate – spero – e poi una corsetta nell’atrio tutti assieme – che finale amichevole! – per rispedirmi gentilmente nell’IperIdeal di provenienza.
 
All’improvviso invece sguainano chi il manganello, chi lo sfollagente, chi lo spray urticante e io me la do a gambe col peperoncino al culo. Vado in direzione dell’uscita. Si apre la prima porta automatica, ecco la breve pista di moquette e dunque si spalanca anche la seconda porta proprio quando irrompono gli sgherri alle mie calcagna.
 
Di nuovo il lampo mi catapulta nel buco nero ma stavolta sopra di me c’è lo staff dell’IperIdeal a scalciare e scalpitare innocuamente nel vuoto come embrioni eterozigoti nel liquido amniotico.
Ripiombiamo nell’IperIdeal h24 del mio quartiere. Io nei miei panni e con ai polsi tanti lacci dorati dai quali pendono altrettante confezioni di pandoro, integre; quelli dello staff nudi come vermi.
Accantoniamo le ostilità e in segno di pace offro loro i pandori: accettano senza tanti complimenti, vuotano gli involucri e, litigandoseli con morsi, gesti e versi da uomini delle caverne, si allontanano.
  

 


[1] Previsto rilascio dietro cauzione fissata in 5.000 piselli bio o 10.000 piselli provenienti da agricoltura extra-UE. Contati a mano dal condannato.

[2] Li riconosci per la targhetta sulla polo o per la polo infilata nella vita dei pantaloni strippata dalla cinta di cuoio nero funerario.


 
 
 

Antonio Semproni è nato nel 1988. Ha pubblicato le raccolte di poesie ‘Rime in prima copia’ (Controluna, 2020, attestato di merito al Premio Lorenzo Montano 2022) e ‘Mercati & Mercati’ (Transeuropa, 2022). Sue poesie, racconti e interventi su temi di economia sono in rete su vari blog. È il fondatore dell’IperIdeal h24, primo supermercato aperto senza alcun capitale perché esistente solo nei suoi racconti.

 
 
 

Illustrazione originale di Claudio Arisi.

 
 
 

Claudio Arisi Vive e lavora a Cremona.Dopo trascorsi di fotogiornalismo sportivo si dedica alla pittura, al fumetto, alla grafica e alla fotografia. E’ stato ideatore e curatore dell’art magazine Bakelite. Nel 2004 ha vinto il concorso del Centro Fumetto Andrea Pazienza, per il quale ha pubblicato nel 2010 la graphic novel Diario dell’Amazzonia. Realizza illustrazioni per libri, pubblicazioni ed eventi. Una sua altra illustrazione è stata pubblicata qui.

 
 
 

Breve viaggio attraverso la valle

 
 
 
di Paola Marcolini

 
 
 

La tempesta fu imprevista e abbatté gran parte della foresta. Ma la vera morte ha iniziato ad avvinghiare il bosco e le creature che l’abitano solo due anni dopo: nato dai cadaveri degli alberi caduti, il bostrico ha avuto ben sette stagioni per prolificare e iniziare ad attaccare quelli vivi. Il bostrico tipografo, o bostrico dell’abete rosso, è un coleottero, e veste una lucente ed elegante corazza nera. A ricoprirlo ulteriormente, una pelliccia color dell’ambra.
 
La breve storia che sarà raccontata si svolge quindi a quasi due anni — equivalenti alle sette stagioni sopracitate — di distanza dalla tempesta, in un afoso giugno.Breve viaggio nella valle
 
Alle cinque di quel pomeriggio di inizio estate, il sole illuminava la valle tagliata per il lungo da un treno, treno che i più esperti avrebbero descritto come parallelo a una vena geologica.
 
Alle nove di quella sera il sole sarebbe rimasto, solo di riflesso, nella nuvola dorata sopra la collina est.
 
Dando tempo all’astro di compiere questo viaggio, una donna dallo sgargiante abito giallo ambra ne avrebbe compiuto uno lei stessa: quindi un viaggio di quattro ore, che si potrebbe dire breve, ma in base a quale parametro si stabilisce la brevità di un viaggio?
 
Fatte tali premesse, si può quindi iniziare il racconto.
 
Alle cinque di quel pomeriggio di giugno, il sole colpiva felice e la donna vestita di ambra coglieva tutto quello che c’era da cogliere dall’asfalto tiepido davanti alla bancarella: alcune fragole, un cespo di insalata e una arancia. Gli alimenti scaldati dal calore del terreno erano privi di attrattiva, ma l’arancia si salvava: la sua pelle butterata l’aveva protetta dal caldo. Caldo e afa, ogni tanto una breve brezza. Nel cielo una sola nuvola, che la donna notò alzandosi e pulendosi le ginocchia. Si sfilacciava allargandosi e i venti freddi che vi soffiavano nel mezzo erano lenti dalla Terra, pieni di attese.
 
Quella primavera, l’esemplare maschio di bostrico aveva scavato, scavato e scavato. Come risultato del suo lavorio, nella corteccia era apparso un foro che sembrava prodotto da un minuscolo proiettile: la segatura resinosa color arancio, cadaverico sangue dell’abete, era raggrumata ai bordi dell’apertura.
 
Prima di proseguire nel dedalo del mercato, la donna vestita di giallo ambra prese forza da un respiro intenso, rumoroso per chi le stava accanto. Uno sguardo furtivo si posò su di lei: un signore vestito di grigio e azzurro, le parve, le rimandava una rapida occhiata prima di voltarsi e proseguire.
 
Si allontanò consapevole di riempire oziosamente il tempo con problemi inesistenti: problemi come l’aver scelto un abito così sgargiante (ma aveva così caldo che non poteva immaginare di indossare altro), il non farsi vedere o notare troppo (ma una parte di lei voleva forse sfidare quegli sguardi che tanto temeva), il dover raccogliere velocemente ed essere furtiva: precauzioni che alla fine non sarebbero valse a nulla. Nonostante la speranza di salvarsi — speranza nutrita dal treno che l’attendeva — pensava che in fondo la sua fosse una sopravvivenza vana. Prima o poi l’avrebbero presa, e che differenza c’era poi tra l’essere presa un giorno oppure l’altro. Eppure, si disse, doveva prendere tutto, anche al solo scopo di poter poi perdere tutto.
 
Tastò la polpa del tronco, e decise (come solo il bostrico può decidere) che quello era il luogo adatto per costruire la camera nuziale. Muovendosi con precisione, creò un grande squarcio sotto la pelle dell’abete, ampio e caldo. Nella camera nuziale, il maschio si accoppiò con due femmine. Queste scavarono gallerie lunghe circa dieci centimetri e parallele all’asse del tronco, dove deposero l’una cinquantatré uova, l’altra settantuno.
 
La donna dal vestito giallo ambra aveva preso abbastanza per nutristi e vestirsi nei giorni che sarebbero seguiti. Si incamminò verso il treno. Aveva tutto. Aveva deciso come solo un umano può decidere. Un giorno come un altro la foresta sarebbe scomparsa, e con essa tutto.
 
Il bostrico tipografo scriveva con pazienza e cieca obbedienza alla propria natura, e nella pelle interna della corteccia tracciava, con la grazia delle necessità precise, corridoi che molti bambini ritenevano opera di alieni capaci di sacre scritture. Di cortecce così redatte ne era pieno il bosco.
 
La donna vestita di giallo camminava verso la stazione. Il vento si levò, e lei poté sentire con precisione, le parve addirittura ciascuno distintamente, gli aghi e le foglie colpirla. Era stanca, così stanca.
 
Il corpo avvinghiato nei riflessi ambra procedeva lento e stanco, sempre più lento e stanco, finché non si fermò per riposare, perché altro non poteva fare. Piegò le giunture, si accasciò.
 
Il treno era uscito dalla galleria giusto in tempo.
 
Il corpo si rilassò, le pareti strette intorno si sarebbero prese cura delle sue fatiche. Le pareti del cunicolo, le pareti del treno.
 
Effimera e prodiga di beatitudine, l’arancia il cui peso nella borsa era stato una promessa, una promessa durata l’intera giornata, rotolava brevemente sul tavolino davanti al sedile. La donna guardò fuori dal finestrino. Nel cielo che imbruniva c’era un’unica e solitaria nuvola, dorata e piena di attese.
 
Giunsero così le nove, e il sole rimase intrappolato nella nuvola sopra la collina est. La donna iniziò a incidere la buccia d’arancia con precisione.

 
 

Paola Marcolini Classe 1990, è nata e vive a Trento, dove lavora come editor. In passato si occupava, in un certo senso, di un altro tipo di editing: era assistente alla sceneggiatura e alla regia di Razi Mohebi, regista di origini afghane. Dopo aver accettato il fatto di avere la mente assediata da strane immagini — che sospetta racchiudano storie — ha deciso di confessare i suoi misfatti da prosatrice. I suoi racconti sono apparsi su Bomarscé, Clean, Micorrize e Inutile.

 
 
 

Illustrazione originale di Paola Marcolini.