Una pasticceria tutta bianca, bellissima, semivuota. Vetrine, sedie e tavoli laccati di bianco. Al banco, una graziosa ragazza dagli occhi di taglio quasi orientale, capelli raccolti, garbato sorriso cinematografico. Nello stretto passaggio una coppia alquanto trasandata, entrambi un po’ avanti con gli anni, ma non vecchi. Lui, frusti pantaloni flosci, un maglione informe, capelli che da troppo non vedevano il barbiere, descriveva a lei le delizie esposte: le caratteristiche, il gusto, il sapore; ne schematizzava addirittura una specie di graduatoria. Lei il disagio lo evidenziava di più, ma anche una strenua voglia di essere ancora donna, ancora curata, ancora piacente. Esile, portava un basco verde scuro, su una capigliatura riccia e bruna, capelli belli ma non curati dal parrucchiere, troppo disordinati, a stento mantenuti dal basco. Il viso pallido e sciupato rivelava un’esitazione, un’incertezza, un modo cauto e guardingo, direi pauroso. Come di chi ha sofferto molto e ora non ci crede, di vivere un giorno quieto. Quasi non parlava, comunicava in un soffio al compagno, più che altro lo guardava con intensità dolente. Lui la proteggeva, con lo sguardo, con i gesti, con le parole, come volesse dirle che c’era, sarebbe stato accanto a lei, e non solo quella mattina in pasticceria, ma sempre, a proteggerla dalle cose che lei sapeva, che lui sapeva, così evidenti negli occhi di entrambi che quasi apparivano lì, tra le sedie laccate di bianco.
L’altro lui, anziano, molto alto, cappello a tesa corta, sguardo imperioso, abiti trascurati ma buoni, capelli freschi di barbiere, occhiali pregiati. Mani grandi, imperiose anche loro. Lei coetanea, bassina, quasi tarchiata. Un giubbino démodé, di squisita qualità, jeans neri e sneakers goffe, ma comode, care. Viso rotondo, pochi capelli curatissimi, comunque belli. Un po’ lenta per l’età, ma agile; seria ma non imbronciata, sguardo attento: quasi indagatore, inquisitorio.
Sceglievano due vassoi di pasticcini e rustici: un dono per un’attenzione ricevuta. Con noncuranza, come si fa per un obbligo di cortesia, ma anche verificando sott’occhio che il personale non ci mettesse pezzi tutti uguali.
Si capivano con mezzo battito di palpebra e si seguivano l’un l’altro. Parole pochissime, masticate tra i denti.
Intanto gli altri due seguitavano ad andare avanti e indietro nello stretto passaggio, sussurrandosi frasette, indugiando tra le sedie bianche e le vetrine. Intralciavano, con le loro esitazioni, i loro lunghi pensieri, la coppia seconda, decisa, netta.
Preparati i vassoi, occorreva il biglietto con le firme, e lei, essendo bassina, si dovette appoggiare al banco della cassa, in fondo allo stretto passaggio, per poter scrivere.
Fu allora che l’altro lui le parlò.
– Per favore, può far passare?
Lei alzò gli occhi seccata, e solo allora si accorse che stava impedendo l’uscita dell’esile donna, intrufolatasi nello spazio stretto tra il muro e la cassa per scegliere una scatolina di caramelle alla menta.
Con un certo disappunto la fece passare, borbottando qualcosa a proposito del disturbo che stavano dando quei due.
Sistemato il biglietto nella busta, non restava che pagare. Pochi minuti, il tempo di usare la carta di credito. Mentre la donna col basco, finalmente seduta, mangiava avidamente, concentrata, un enorme pezzo di torta alla frutta, portando alla bocca un cucchiaino con un moto più vicino alla fame che alla golosità. Non alzava gli occhi dal piatto; lui la guardava, senza sedersi, beato.
Gli altri due uscirono nella strada luminosa: decisi, benché un po’malfermi nel passo.
– Andiamo? – in un soffio.
– Certo.
Nulla trapelava del cuore grosso, dell’angoscia chiusa ma dilagante. Tutto era fatto adesso: l’appuntamento fissato, il dono inviato, i dolci in arrivo. Il portone antico, ad arcata, le scale di marmo nella penombra della volta. La porta dischiusa.