Quodlibet

Manualetto per la prossima vita

 
 
 
 

Più che per fornire un vademecum a chi dovesse capitare al mondo una seconda volta, si ha la sensazione che Ermanno Cavazzoni abbia scritto Manualetto per la prossima vita (Quodlibet, febbraio 2024) allo scopo di offrirci una propria metafisica, magari tascabile e trasognata ma in fondo rigorosissima.

È Cavazzoni stesso a dichiararlo nella premessa, che svela la composizione dell’opera: “ogni capitolo [sette più quello conclusivo, brevissimo, N.d.R.] tratta in ordine di sei questioni inevitabili, che riguardano: la vita, la morte, il cosmo, i casi quotidiani, il fatalismo che più o meno consiglio, e l’aldilà come in genere, qui, su questo pianeta, si suppone che sia.
L’ultimo capitoletto condensa con un esempio tutte e sei le questioni” (p. 7).

Il Manualetto sembra nascere dal desiderio di testimoniare la vacuità degli umani affanni, che hanno come approdo ultimo la morte, dunque il fallimento più completo e definitivo. Con ironia inevitabilmente malinconica, Cavazzoni ora si prende gioco delle nostre inclinazioni e abitudini, ora fantastica universi alternativi o esistenze ulteriori, che ci consentirebbero di vivere una vita un po’ meno insensata.

Appartiene alla prima categoria di argomentazioni, ad esempio, la seconda sezione del settimo capitolo, intitolata “L’esposizione prolungata agli opinionisti TV porta l’uomo al suicidio” (p. 213). Per evitare che ciò accada, l’autore chiede di rafforzare la legge che vieta la libera detenzione di armi, perché “l’esposizione prolungata alla TV genera una tipica sindrome, per cui l’uomo comune, in mancanza di un canale di sfogo, si sfoga su se stesso sparandosi. Qualcuno va in bagno e si annega o tenta di annegarsi sotto la doccia. In tal caso la legge è impotente, non si può vietare in via preventiva l’uso dell’acqua” (p. 216).

Della seconda categoria fa invece parte l’irresistibile “Prima di vivere occorrerebbe una vita in prova” (p. 177), in cui Cavazzoni spiega che “nel sistema attuale, uno è gettato nel mondo senza esperienza, senza un manuale di istruzioni, in mezzo ai pericoli, alle tentazioni e alle insidie, tra sconosciuti, un po’ come se da un elicottero ti calassero nel centro della foresta amazzonica e tu dovessi cavartela, nudo, solo, tutt’al più con un coltello da cucina in mano, e attorno animali velenosi, piante spinose, coccodrilli e cannibali. Cosa faresti? ruberesti, uccideresti, diventeresti a tua volta cannibale. Io dico che questa vita è stata mal concepita fin dalle origini. Dovevano metterne una precedente di prova. Non so di chi è la colpa. L’uomo commette il male per inesperienza” (pp. 179-80).

La prospettiva del Manualetto per la prossima vita sarà paradossale, il piglio giocoso, eppure il libro, si diceva, affronta questioni ultime con coraggio e disincanto: non c’è rimedio alla fine, e ogni vita considerata dal punto estremo è un ansioso accumulo di esperienze inutili, che si consumano con l’obiettivo illusorio di giustificare la nostra presenza terrena.

Ermanno Cavazzoni paragona più volte l’esistenza a uno spettacolo teatrale, un trambusto preceduto e seguito dal silenzio. Perciò, che fare? Come non cadere nella più cupa disperazione? Forse fingendo davvero che vivere sia partecipare a una grande narrazione. Atteggiamento che può dare un duplice, minimo sollievo: quello di sapersi parte di un’eterna vicenda in cui non esistono privilegiati, e quello di immaginare ciò che ci accade come se accadesse al personaggio di una fiaba.

È quanto Cavazzoni scrive nella suggestiva quinta sezione del settimo capitolo, “La grande fiaba in cui siamo dentro” (p. 229), forse la micronarrazione in cui, più che in ogni altra, il cinismo lascia spazio all’indulgenza. L’autore ci dice infatti che ogni accadimento, per quanto vissuto con intensità, grazie all’azione del tempo si scioglie appunto in materia narrativa, “si stringe il tutto in una specie di film appassionato che allora non si era stati capaci di raccontarsi; un po’ perché si era nel mezzo della vicenda e non si vedeva l’intero; un po’ perché nella vita le cose sono diluite e miste, sono tante, frammentate, accavallate. La vita passa via e si resta con niente, o con dei ricordi e poi con dei rimpianti” (pp. 229-230).

Ecco allora che, da questa prospettiva, non solo la vita ma pure la scrittura può recuperare un barlume di senso: “La letteratura è una macchina che ci dà in prestito le fiabe che non abbiamo saputo vedere quando c’eravamo dentro” (p. 231).

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera

 
 
 

Ugo Fantozzi oggi ha trent’anni, non fa più il ragioniere e vive a casa dei suoi nella provincia lombarda. Nullafacente laureato, senza una donna, si consola chattando col suo Mandingo dopo che la frequentazione compulsiva del porno lo ha quasi transessualizzato.

Senza quasi: il ragionier Ugo si chiama Guglielmo Sputacchiera e un mattino d’agosto si sveglia “col muso sprofondato in un bel paio di seni: i suoi” (p. 1). Inizia così La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, romanzo d’esordio di Alberto Ravasio (Quodlibet, 2022).

L’artificio comico della transessualizzazione trasforma il personaggio nell’alter ego “donno”, Carmela Pene, che ripercorre con sguardo straniato la storia del suo desiderio, inteso come pulsione erotica (cui sono dedicati, più strettamente, i capitoli Falluce, p. 15, Vulve umanistiche, p.23, e Il primo amore e altre sciagure, p. 97) ma anche, in senso lato, come volontà di potenza nel mondo, realizzazione della propria identità.

La ricostruzione autobiografica non porta a nessun risultato se non quello di elencare le ragioni della sua castrazione esistenziale. Sua e della sua generazione, di cui diventa il portavoce paradossale.Eccolo lottare vanamente contro il sistema universitario, preambolo del precariato a vita (“Ora che tutti l’avevano, la laurea non bastava più, occorreva rafforzarla con specialistiche all’estero, viaggi di studio, conoscenza di lingue esotiche, tutte integrazioni che facevano rientrare dalla finestra quel che la massificazione aveva cercato di cacciare dalla porta, vale a dire il classismo insito nell’esperienza universitaria”, p. 26-27).

Allora eccolo inveire contro la provincia (Il paesello stercoso, p. 47) che lo ha rinchiuso in un limbo retrogrado (“Immune dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese […] non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro-casa-chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere”, p. 47), adolescente eterno prigioniero in casa dei suoi (“Mi sono ridotto a essere l’animale domestico dei miei genitori, un lussuoso e nullafacente gatto d’appartamento”, p. 157).

Eccolo denigrare il cattolicesimo stagnante della sua famiglia (Famiglia cristiana, p. 37), in cui sfiorisce la femminilità della madre (“Dopo il matrimonio e la nascita di Sputacchiera, aveva lasciato il suo impiego e dunque la dignità per occuparsi della casa, insomma per disoccuparsi con la scusa dell’allucinazione collettiva femminile chiamata polvere. […] Dato che il suo unico contenuto culturale era la fiaba del cristianesimo, le venne la follia con sbocco mistico”, pp. 41-42) e in cui domina il machismo piccolo-borghese del padre (“Calciomane, ipervirile e dunque naturalmente omofobo, tifoso della fica e di chi la castiga, munito di camper allungapene, era quel tipo di sessantenne, giovanile e giovanilista, che si mette a torso nudo appena possibile e in piscina si tuffa di testa davanti alle signore”, p. 39).

Non gli resta che la consolazione onanistica del porno (Pornogonia, p. 31 e altrove) che lo svuota definitivamente di ogni desiderio, metafora dell’impotenza vitale sua e dei suoi coetanei (“Il destino dell’uomo virtuale poliamoroso è morire sessualmente di overdose pornografica”, p. 127).

Non c’è soluzione: dopo aver tentato invano di rivolgersi a medici, psicologi e santoni (La manipolatrice testicolare dottoressa Casoncelli, p. 73, L’incoscienza di classe, p. 83 e Anche Dio puzza, p. 109) arriva all’ammissione del proprio stato di minorità che diventa dichiarazione politica di un’intera generazione: “(Io provo, ndr) Vergogna, anche se sento di non essere il solo. Di non più tanto giovani, mantenuti dai genitori come adolescenti, che non studiano e non lavorano da anni, ce ne sono molti, troppi: plurilaureati precari, dottorandi nullatenenti, eremiti del Porno. Ma purtroppo, finché continueremo a muoverci in un individualismo straccione, convinti che il successo di poche eccellenze sia una prova sufficiente della democraticità del sistema, non ci assoceremo mai per cambiare davvero le cose» (p. 93).

Ogni pagina è delineata con un espressionismo linguistico travolgente. Ci si sorprende a ridere davanti ai neologismi e ai giochi di parole che intessono l’epopea fantozziana del protagonista (fra i tanti: “labirintite cognitiva” p. 23, “paese musuerolato dall’analfabetismo” p. 57, “arpionaggio pubico” p. 71, “orari andreottiani” p. 74, ” mattatorizzava la conversazione” p. 92, “magnetismo mondano del tostapane” p. 98, “vulvolatra acritico” p. 100, “pelle glandica” p. 148).

Come Marcello Snàporaz nella città delle donne, Carmela Pene si muove fra i modelli dell’eros contemporaneo sino ad arrivare a un parricidio dalle modalità stranianti, una sorta di rito di iniziazione verso una rinascita identitaria, il premio per aver affrontato di petto, seni annessi, le storture della sua vita.

(Agostino Bimbo)

Violenti con intenti filosofici

 
 
 
 

“Le nostre colazioni
sono le stesse da vent’anni
da trent’anni
sono trent’anni che spalmiamo
le stesse cose sullo stesso pane
e beviamo lo stesso tè
non ti pare
che solo per questo
dovremmo suicidarci”
 
Ma il desiderio di eternarsi non è meno malinconico, non è meno misero della ripetizione imperitura dei medesimi gesti.
“Per tutta la vita ci sforziamo
di scrivere due tre pagine immortali
non vogliamo di più
ma questo allo stesso tempo è anche il massimo”

L’avvilimento di essere riconosciuto come persona.
“disprezza la mia essenza più intima
eppure pretende
che io mangi i suoi bignè viennesi fragranti”
 
E così mi ritrovo sospeso tra una vita che sdegnosamente rifiuto e un altrove che mi è precluso.
E così mi ritrovo a essere “un violento con intenti filosofici”.
 
 
 
(Suggestioni e citazioni tratte da Thomas Bernhard, Ritter, Dene, Voss, traduzione di Luigi Reitani, Quodlibet, Macerata 2022)

 
 

Colloqui con il professor Y

 
 
 
 

Ogni lettore smaliziato sa bene che ci si dovrebbe avvicinare a un’opera ignari del suo autore, per evitare la tentazione di sovrapporre la biografia alla vicenda narrata; tale operazione potrebbe infatti creare una serie di ostacoli alla lettura, tra cui inibire la concentrazione e – laddove plausibile – l’immedesimazione; istigare inoltre al giudizio, o meglio al travaso del proprio punto di vista sull’autore in opinione sul testo.

Tuttavia ci sono scrittori la cui personalità debordante investe la scrittura, la innerva, al punto che la parola pare farsi corpo (non corpo autonomo, bensì proiezione dello scrittore medesimo): viene così messa in scacco ogni possibilità di relazione con essa che prescinda da un confronto con il suo artefice.

È certamente il caso di Louis-Ferdinand Céline, che se già nelle opere maggiori adotta un’angolazione autobiografica, in Colloqui con il professor Y (pubblicato nel giugno del 2020 da Quodlibet, traduzione di Gianni Celati e Lino Gabellone, introduzione di Martina Cardelli, postfazione di Gianni Celati) offre al lettore un furioso e nel contempo lucidissimo saggio della propria scrittura-corpo.

Si tratta di un’intervista che Céline immagina di rilasciare al misterioso professor Y, la cui vera identità risponde a quella del colonnello Réséda (e chissà che il grado militare non sia giustificazione o alibi di una certa scolasticità delle domande poste all’autore). Grazie a questo espediente finzionale, lo scrittore ha la possibilità di esprimere, o meglio di esibire, il proprio punto di vista su una serie di questioni che riguardano anzitutto la tecnica narrativa, l’ambiente editoriale e la brama (altrui e propria) di notorietà.

Si sono adoperati gli aggettivi furioso e lucidissimo, che a ben vedere identificano sia la scrittura che la personalità di Céline. Il quale, ancora giovane e sconosciuto, indirizzava all’editore Gallimard missive che presentavano simili passaggi: «Per carità non aggiunga una sola sillaba al testo senza avvertirmi! In un attimo farebbe crollare il ritmo – solo io posso ritrovarlo. Potrò sembrarle uno sprovveduto ma so perfettamente quello che voglio. Non una sillaba. E attenzione anche alla copertina» (da Lettere agli editori, a cura di Martina Cardelli, uscito sempre per Quodlibet nel 2016 e recensito qui).

I Colloqui con il professor Y mostrano un uomo tutto compreso nel ruolo di scrittore, tanto consapevole della straordinarietà del proprio talento (“[…] il linguaggio scritto era a terra, sono io che ho restituito l’emozione al linguaggio scritto!”, p. 29) quanto insofferente verso la mediocritas dei suoi colleghi: “[…] non sono più romanzi quelli che pubblicano, ma tanti compitini!… compitini sarcastici, compitini archeologici, compitini proustici, compitini senza capo né coda, compitini! Compitini nobelici… compitini anti-razzisti! Compitini per piccoli premi! Per grandi premi!… Compitini Pléiade! Compitini!” (pp. 24-5).

Ma in queste pagine c’è di più. L’atteggiamento di Céline, che vezzeggia quasi spudoratamente l’agio e la fama, non segnala una contraddizione: semmai il suo desiderio di essere riconosciuto, ammirato, premiato, da un lato conferma la sua totale schiettezza, che qui si traduce nell’assenza di falsa modestia, mentre dall’altro ne palesa l’incapacità di adottare le maschere sociali della sobrietà e della temperanza, o forse il suo completo disinteresse verso le cosiddette buone maniere.

E allora viene da pensare che la vera scrittura nasce dalla concentrazione assoluta, la quale esclude non solo ogni distrazione ma pure ogni posa, ogni modalità comportamentale e comunicativa adottata per una qualche convenienza. E così, al termine della lettura dei roventi Colloqui con il professor Y, ci viene restituita l’immagine di Céline come uomo per così dire fuori dal mondo – se inteso come insieme di codici convenzionali utili a garantirsi riconoscibilità e riparo – ma pienamente dentro la scrittura; che è, o dovrebbe essere, proprio un’uscita dal mondo: “[…] le opinioni degli uomini non contano un fico! dissertazioni! bolle di sapone! troiate!… puaah! conta solo la cosa in sé! l’oggetto! capito? l’oggetto! è riuscito? non è riuscito?… per la madonna! e il resto? accademismo!… mondanità!” (p. 41).

 
 
 

Un uomo che dorme

 
 
 
 

Dopo la prima edizione del 2009, nel giugno 2020 viene ristampato, sempre da Quodlibet nella traduzione di Jean Talon, Un uomo che dorme di Georges Perec (del quale su questo blog si è recensito Le cose).

Scritto in seconda persona, come una lunga apostrofe a un anonimo studente di venticinque anni, protagonista della storia, il romanzo è caratterizzato da una curiosa contraddizione: se da un lato si moltiplicano le azioni, si accumulano vorticosamente descrizioni minuziose di percezioni e di gesti, dall’altro pare non accada mai alcunché di emblematico, significativo, esemplare.

“Ma niente è accaduto: nessun miracolo, nessuna esplosione”, p. 141.

Eppure, una tensione silenziosa innerva potentemente le pagine di questo libro, quasi che il senso del racconto fosse semplicemente nel ritmo, nel dispiegamento incessante della vita del protagonista.

Il quale, uscito dalla propria condizione sospesa, sembra risvegliarsi e vedere il mondo:

“Smetti di parlare come un uomo che sogna.

Guarda! Guardali! Migliaia e migliaia di sentinelle silenziose, immobili genti di terra, piantate lungo le banchine, le rive”, pp. 143-144.

Il romanzo pare infatti un percorso dal sonno alla veglia, dall’assenza alla presenza, un viaggio che non conduce il protagonista a particolari conseguimenti, a condizioni speciali, a prestigiose destinazioni, che non comporta per lui acquisizioni di intelligenza né di saggezza, né tantomeno lo accompagna a qualche esperienza estrema di distruzione o difesa di sé: “I disastri non esistono, sono altrove. La più infima catastrofe avrebbe forse potuto salvarti: se avessi perso tutto, avresti almeno avuto qualcosa da difendere, delle parole da dire per convincere e commuovere”, p. 142.

Un cammino tutt’altro che lineare, ciclico piuttosto, dove però non si verificano precise ripetizioni né esatti ritorni: se a metà del romanzo lo studente raggiunge una condizione di distacco dal mondo, che tuttavia ancora costituisce un luogo privilegiato e del tutto personale in cui annegare, il rifugio in un’uguaglianza indifferente e pacificata con le cose e i viventi, nel finale invece il giovane sperimenterà la vertigine della realtà senza più filtri, la semplicità di non essere, in qualche modo, speciale. Di essere unicamente esposto alla vita presente. Una condizione che pare molto più intensa, precisa e indicibile di un'”esposizione generale ai fenomeni esterni”, come sottolinea Gianni Celati nella postfazione.

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