Invisibili

 
 
 
 

Ai giocatori di Go

 
 

“Negli ultimi dieci anni, il maestro ormai anziano aveva preso parte soltanto a tre competizioni a livello agonistico. E ogni volta si era ammalato nel pieno svolgimento della gara. Dopo la prima di queste partite la sua salute era rimasta malferma; dopo la terza sarebbe morto” (p. 52).

 
Scegliere l’intensità, rifiutare l’estensione. Perché la vita si sviluppa in un punto, dispersione è l’ampiezza.

 
“Il maestro non era stato spinto a quella sfida solo dal prestigio di un grande editore e dal compenso che avrebbe ricevuto, ma anche dalla consapevolezza di esibirsi per amore dell’arte; lo spirito combattivo non aveva mai cessato di bruciare dentro di lui. Se solo avesse sospettato di perdere, probabilmente non si sarebbe esposto in quel modo. Fu come se la sua vita si spegnesse nel momento stesso in cui cadeva dal suo capo la corona dell’invincibilità” (p. 60).

 
Ma nemmeno la massima intensità annulla la presenza del corpo, ed è lì che la vanità attecchisce. No, neppure l’immobilità: le statue sono corpi in mostra. Forse per vivere davvero bisognerebbe diventare invisibili.

 

 

(Suggestioni e citazioni tratte da Yasunari Kawabata, Il maestro di Go, traduzione di Cristiana Ceci, Studio Editoriale, Milano 2001)

 

(Claudio Bagnasco)

 
 
 

Gente alla buona

 
 
 
 

Quanti segreti nasconde la Gente alla buona di Mattia Grigolo (Fandango, 2024)? Quali colpe devono spartirsi ed espiare gli abitanti di un piccolo paese della Bassa padana, che negli anni Sessanta contava trecento anime e oggi se ne ritrova dieci volte tante? Eppure, niente è cambiato, il paese è ancora “Come un orecchio che da qualche parte ascolta quello che gli sta dicendo una bocca. E questo orecchio qui non c’ha una testa a cui è attaccato e quella bocca non ha una voce sola: è la bocca di tutti” (p. 84).

Il paese che ti possiede e non ti lascia andare, con “i suoi codici, la sua forma, l’amalgama di tutti quando tutti sono uno solo, anche chi non c’è, chi non c’entra, chi sta dormendo, chi è lontano, chi è già morto e chi deve ancora nascere” (p. 93). E così quelle colpe sembrano propagarsi dai genitori ai figli e dai figli ai genitori, nelle cinque decadi racchiuse nel romanzo e ripercorse seguendo una linea temporale che, tra passi in avanti e balzi verso il passato, si avviluppa attorno ai luoghi e alle anime che a essi appartengono.

Gente alla buonaSara, Brando, Larcher e Michele hanno tredici anni nel Natale del 1996, funestato da due morti che sconvolgono la comunità e sollevano sospetti. Alla loro età i gravami e i crucci della condizione umana li raggiungono solo di riflesso, quando gli adulti non sono capaci di proteggerne l’innocenza tenendoli per sé. Non possono immaginare che gli eventi di quelle ore finiranno per annodare indissolubilmente le loro vite e segnare per sempre quelle dei genitori, del giovane parroco, don Maurizio, e persino del povero Gianin, il matto dal braccio sifulo che vive in una catapecchia comunale con la sua cagnetta Mimì. Un’ombra nera, spessa e opprimente calerà sull’intero paese, sovrapponendosi alla nebbia che già ammanta le strade e offusca i pensieri, quando non è sufficiente il vino che l’Anna serve nel suo storico bar a pochi passi dalla chiesa.

Nessuno può sapere che quel giorno, quell’insignificante punto del tempo al quale la narrazione esterna tende in un continuo ritorno al presente, è sempre stato l’origine e la destinazione delle loro traiettorie esistenziali. Come se il tempo avesse memoria e si facesse carico dei ricordi, anche di quelli che non ci hanno ancora raggiunto o che vorremmo cancellare. E invece “Sono lì che aspettano di tornare quando si è più vulnerabili. E si è sempre fragili davanti al male. Le cose cattive sono più determinate delle cose buone” (p. 89), e alcune “ti restano appiccicate addosso, pure quando tutti gli altri fanno finta che non le vedono e a te ti sembra che non ci sono mai state, ma non è vero” (p. 117).

Il paese narrato da Mattia Grigolo è prossimità di anime che non annulla le solitudini: al contrario, le genera e le amplifica. Ogni accidente è dolore di tutti che si patisce per se stessi; ogni peccato è pena collettiva che si sconta entro gli angusti confini del proprio tormento. Il bene e il male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il colpevole e l’innocente, la vittima, l’aguzzino e il salvatore. Colui che giudica e colui che viene giudicato, il confessore e il penitente. Sono categorie prive di confini e indistinguibili sagome in cerca di riparo nel silenzio delle strade buie e deserte. “Restano solo uomini, gente che ha passato un altro Natale e ora se lo beve, che ha accettato quello che il mondo, o forse soltanto quel piccolo paese della provincia padana, ha deciso per loro: chi il santo, chi la vittima, chi l’amico, chi il carnefice” (p. 187).

L’assoluzione e la condanna passano di bocca in bocca, ma nessuno le pronuncia perché la Gente alla buona non si ferma ad ascoltare.

 
 
(Gianni Usai)
 
 

Ci vediamo in agosto

 
 
 
 

Un’affascinante quarantaseienne, un marito direttore d’orchestra, due figli, e una piccola isola caraibica destinata a trasformarsi in pochi anni in una frequentata meta turistica. L’abitudine di Ana Magdalena Bach di tornare da sola sull’isola, ogni 16 agosto, per depositare un mazzo di fiori sulla tomba della madre. E su questo irrinunciabile rito, mosso dal cuore e dallo spirito, ne attecchisce, quasi per caso, uno più carnale, impudico. Così quell’appuntamento innocente diviene occasione di incontro, attesa tutto l’anno, con uomini sconosciuti.

Potrebbe essere questa, in sintesi, la trama di Ci vediamo in agosto, inedito postumo di Gabriel García Márquez, uscito il 6 marzo in contemporanea mondiale e pubblicato in Italia da Mondadori nella traduzione di Bruno Arpaia. Il testo del premio Nobel naturalizzato messicano è preceduto da uno scritto impropriamente definito prologo e firmato da Rodrigo e Gonzalo García Barcha, nel quale i due figli di Márquez provano a giustificare la scelta di pubblicare l’opera di cui tanto si è parlato in questi anni e che lo stesso autore, si dice, avrebbe voluto distruggere. È poi seguito da una nota del curatore, Cristóbal Pera, che ne ripercorre le tappe della travagliata Ci vediamo in agostogenesi ed evoluzione attraverso i dubbi e i ripensamenti di Gabo, ormai consapevole del proprio declino intellettivo. Chiudono il piccolo volume, quattro pagine in facsimile del manoscritto in fase di elaborazione, sulle quali si possono leggere gli interventi autografi o dettati dall’autore alla sua segretaria.

Al netto dell’apparato di cui si è appena dato conto, Ci vediamo in agosto si riduce a poco più di ottanta pagine, che non raggiungono le 1300 battute e nelle quali la grande prosa a cui ci aveva abituati Márquez (anche quella senile e più rarefatta, ma ancora potentissima, di Memoria della mie puttane tristi, ultima opera pubblicata con l’autore in vita) fa solo sporadiche e sbiadite comparse. Le descrizioni sono scarne e spesso scontate, le ambientazioni spoglie e gli eventi scorrono via troppo rapidi fino all’artificioso tentativo di colpo di scena finale. Nel complesso, l’impressione è di avere a che fare con l’abbozzo di un progetto mai davvero approfondito. Non un racconto, come scritto da molti, ma l’intelaiatura di un romanzo al quale le lacune della memoria e le difficoltà cognitive dello scrittore hanno sottratto corpo, sostanza e potere immaginifico.

Si fatica a riconoscere il creatore di Cent’anni di solitudine, e delle altre opere che hanno segnato la letteratura contemporanea, tra ripetizioni, incoerenze e passaggi come quello che segue:

“Mentì raccontando che in albergo era saltata la luce e che la mattina non c’era acqua nella doccia, perciò era venuta senza aver fatto il bagno e con il sudore di due giorni. Però il mare era calmo e fresco ed era riuscita a dormicchiare a tratti durante il viaggio.

Lui saltò giù dal letto, in mutande, come dormiva sempre, e andò in bagno. Era gigantesco, sportivo e di una bellezza facile. Lei lo seguì e continuarono a chiacchierare, lui dalla cabina della doccia appannata e lei seduta sul coperchio del water, come facevano appena sposati” (p. 35).

Traspaiono, certo, la limpidezza dell’idea e l’ambizione di indagare l’animo della protagonista — e con lei di qualsiasi donna che si trovi nel medesimo momento della propria vita — intessendo sulla pagina le dinamiche emotive e le pulsioni che ogni anno la riportano sull’isola, di ricostruire in tal modo i complessi rapporti che la legano alla madre, al marito, al figlio e alla figlia, e anche agli sconosciuti con i quali condividerà clandestinamente il letto. Di tanto in tanto, Gabo compare tra le righe con la sua straordinaria capacità di immaginare mondi e popolarli:

“Si ammorbidì le labbra con un rossetto neutro, si inumidì gli indici sulla lingua per lisciare le sopracciglia ribelli, si diede una spruzzata di Maderas de Oriente dietro le orecchie, e finalmente affrontò lo specchio con il suo volto di madre autunnale. La pelle senza traccia di cosmetici aveva il colore e la grana della melassa, e gli occhi di topazio erano stupendi con le loro scure palpebre portoghesi. Si triturò a fondo, si giudicò senza pietà, e si trovò quasi bella come si sentiva” (p. 15).

Ma sono soltanto flebili lampi, che acuiscono il rimpianto per ciò che il suo genio avrebbe ancora potuto produrre. Nel leggere quest’ultima opera rinnegata, mentre si è tentati di pensare a una mera operazione commerciale, ci si sente al cospetto di un familiare splendore ormai esausto. A consolarci resta la consapevolezza che i romanzi sono quanto di più prossimo all’eternità la fantasia umana possa creare, e che per ritrovare quello splendore ci basterà aprire uno dei tanti capolavori che Gabriel García Márquez ha saputo regalarci:

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito” (Cent’anni di solitudine, incipit).

 
 
(Gianni Usai)
 
 

La zia Tula

 
 
 
 

“Qualunque donna nasce madre” (p. 39). Qualunque donna tranne Gertrudis, la zia Tula protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Unamuno (Cencellada, 2023). È lei stessa, però, a pronunciare questa frase perentoria. E poche righe più avanti: “Dammelo, Rosa, dammelo”, riferito al figlio neonato di sua sorella, “e vai a intrattenere tuo marito…” (p. 41). Intrattenere in senso biblico, si capisce. Salvo poi preoccuparsi “di evitare al bambino, sin dalla più tenera età dell’innocenza, di riconoscere, nemmeno nei più lievi e remoti indizi, l’amore da cui era nato” (ibid.).
 
zia TulaBastano queste brevi citazioni a dimostrare l’efficacia con cui Unamuno descrive le contraddizioni di Gertrudis, personaggio esemplare per forza di volontà, rigore morale e invadenza. Ragazza, impone alla sorella Rosa di sposare Ramiro, un giovane che apparentemente corteggiava entrambe. Anni dopo, morta Rosa, rifiuta le ripetute avance del cognato e lo convince-costringe a sposare la domestica Manuela, dopo averne scoperto la gravidanza.
 
Il suo desiderio più intimo non sembra la maternità, quanto allevare figli altrui, e con totale abnegazione si occuperà della prole di sua sorella prima e di Manuela poi. Paradossalmente, la sua caparbietà nell’alleviare le fatiche di coloro che ama prosciugherà loro le energie, portandoli uno alla volta alla morte.
 
La sua figura si erge sulla famiglia al punto da mettere in ombra i figli che via via arrivano: prodotti meccanicamente, all’inizio del romanzo sono indistinguibili uno dall’altro. Conosciamo il nome del primo, Ramiro, come il padre, ma non quello della seconda e della terza figlia. Una nota della traduttrice Sara Papini chiarisce addirittura che, nei capitoli iniziali, Unamuno fa confusione con il sesso dell’ultima nata di Rosa.
 
In virtù delle proprie scelte, impopolari ai tempi della stesura del libro, Gertrudis è descritta in altre recensioni come una paladina della libertà e dell’emancipazione femminile. Sul principio, tale definizione appare un abbaglio: la sua libertà infatti non si ferma al confine di quelle altrui, anzi le travolge, per non dire che le fagocita.
 
Ma zia Tula, pagina dopo pagina, si arricchisce di sfumature. Finalmente arriva la consapevolezza dell’amore, dichiarato a Ramiro soltanto quando il cognato è in punto di morte. E insieme all’amore, Tula confessa la sua paura degli uomini.
 
Quindi è il ruolo della donna nella società e nella religione a essere messo in discussione. “Quando una donna non è rimedio, è animale domestico, e la maggior parte delle volte è entrambe le cose allo stesso tempo! Questi uomini… porcheria oppure pelandronite! E sostengono ancora che il cristianesimo abbia redento la nostra sorte, quella di noi donne! […] Il Cristianesimo, alla fin fine, e nonostante Maddalena, è una religione di uomini” (p. 116).
 
Con l’approssimarsi della morte, i dubbi coinvolgeranno la sua intera esistenza: “tutta la mia vita è stata una menzogna, uno sbaglio, un fallimento” (p. 129), ammetterà Gertrudis al suo confessore. La causa, ipotizzerà lei stessa, è forse dovuta a un’idea disumana della virtù. E qui sorge la questione centrale dell’opera: qual è il confine che divide il più generoso altruismo dal più cieco egoismo? Una dicotomia che attraversa il romanzo e che Unamuno evidenzia a parere di chi scrive reiterando l’uso di espressioni come “civiltà tirannica, tirannia civile” (p. 12), “occhi serenamente seri, seriamente sereni” (p. 49); “sguardi di angoscia riposata, di angosciato riposo” (p. 61); fino a quel “maternità virginale, verginità materna” (p. 122) che più di ogni altro ossimoro descrive il lato mistico di zia Tula.

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(Giovanni Locatelli)